La responsabilità della crisi economica. Studi Prof Carlini

La responsabilità politica di un paese in crisi: con chi prendersela?

La responsabilità politica e sociale di una crisi è del Governo o delle imprese o d’entrambi? Discutendo di livelli di produttività come di conflittualità sociale in azienda, quindi di standard culturali inadeguati, sia sul piano tecnico come umano, dove cercare la causa scatenante?

Normalmente si dice che ogni azienda è un mondo a se stante, per cui serve una ricerca ad hoc per dare risposte adeguate (anche se spesso serve solo a ingrassare la parcella del professionista) ma sopra ogni considerazione ora si vuole cercare l’epicentro del problema. Quello che si chiama “la responsabilità”.

Tradendo la mia natura di sociologo, al centro di ogni vicenda umana ritengo ci sia sempre “l’uomo” con i suoi bisogni, difetti e potenzialità, chi è, cosa fa, come pensa e agisce. Battendo questa pista entriamo in fabbrica.

L’operaio italiano, (in particolare nel nostro paese, ma non molto diverso da quello francese, spagnolo e greco) come anche e soprattutto gli impiegati, è spesso disaffezionato al posto di lavoro, quanto interessato a se stesso. E’ stanco (non si sa di cosa) e quindi arrabbiato per cui conflittuale. Un personaggio inquieto, incerto nel suo futuro, spesso non appagato economicamente, ma “costretto” a lavorare (in alcune parte del paese si dice “faticare”). In questo senso le maestranze raramente sono richiamabili a la responsabilità.

Quanto qui scritto è una generalizzazione; come tale va letta e interpretata al netto di un mare (oceano) d’eccezioni e varianti, ma è certo che è difficile vedere i nostri dipendenti sorridere andando al lavoro, come accade tutti i giorni in metropolitana, osservando i filippini. Insomma abbiamo italiani arrabbiati recandosi a “faticare” e alcuni tipi d’immigrati “contenti”. Indubbiamente qualcosa non quadra!

Per cercare di capire questo problema, come tutti gli altri del resto, serve allargare la visuale osservando non solo gli aspetti direttamente coinvolti, ma il contesto generale. Un criterio di questo tipo ce lo insegnò Max Weber nel 1875 definendo il concetto di methodenstreit.

Infatti il dipendente non è immerso solo nella famiglia e nell’azienda, ma respira un contesto sociale che lo modella a sua volta. Se questo “contenitore” viene arbitrariamente allargato, diventando globale e perdendo la cultura di base del ceppo d’origine, l’uomo si perde perché privato di punti di riferimento. E’ quanto accaduto.

La società occidentale, “globalizzandosi” ha smesso di confrontarsi, mischiandosi con tutti da cui riceve sicuramente punti di vista (spesso importazioni di bassa qualità e prezzo, comportando la perdita del posto di lavoro a molti, quindi immigrazione di ogni genere) acriticamente accettati in nome della tolleranza. L’aver abrogato il confronto tra “noi e loro”, ad esempio tra un mondo occidentale dove le donne guidano da quando esiste l’auto e l’Arabia Saudita dove se ne discute nel 2011 se sia saggio oppure no, comporta di fatto l’abrogazione del proprio livello culturale già stratificato nel corso dei secoli. Se ci dimentichiamo la nostra storia, in nome dell’accoglienza acritica di tutto e tutti, perdiamo l’autorevolezza del confronto, piombando nella solitudine. Gli americani questo concetto lo conoscono bene! Il melting pot è un minestrone tra razze diverse per produrre cittadini americani, non per tollerarne altre in convivenza. Un errore di questo tipo, ovvero credendo alla tolleranza tra culture diverse, è stato commesso da francesi, tedeschi e inglesi i quali tutti ne hanno dichiarato il fallimento.

In un mondo depauperato d’ideali dove s’invecchia, ma non si vive, cosa resta? Ci si arrangia! Separazioni coniugali, sessismo a tutti i livelli (quindi assetti patologici molto diffusi nelle coppie e per i singoli che restano incapaci verso una relazione stabile), assenza di cultura, nervosismo, conflittualità, solitudine, uso di stupefacenti, pornografia, alcolismo, internet, smodato quanto esibizionistico uso del cellulare etc..

In pratica abbiamo una società ripiegata su se stessa, in attesa non si sa di cosa. In una condizione di questo tipo, come si può pretendere la produttività o la fedeltà al lavoro se tutti siamo infedeli verso noi stessi, avendo dimenticato le nostre radici culturali che non sappiamo aggiornare? Chi progettò la globalizzazione (un industriale che voleva solo produrre a basso costo licenziando i suoi dipendenti) adottando alti profili di tornaconto, ha però prodotto grandi guasti nella società in nome di un consumismo maniacale. Ovviamente questo “colui”, non si è mai posto il problema della disoccupazione a danno dei paesi dove il costo del lavoro rispecchia anche un diverso livello di civiltà e qualità della vita sociale e privata.

Come tante cose bisogna provare per credere. Oggi per porre rimedio allo smarrimento di tutti su tutto, serve solo una cosa: formazione! Tonnellate di ore per forgiare un “uomo” nuovo a immagine e somiglianza dell’identikit, che ogni impresa dovrebbe definire.
Inutile pensare che possa farlo lo Stato perché questi, al momento (la crisi greca lo attesta in forme plateali, ma in realtà tocca l’intera Europa, in particolare quella nella UE) non sa tratteggiare modelli culturali nazionali, confondendosi in una indefinita umanità che tutto accoglie senza essere. In questo gioco delle parti, che produce solitudine esistenziale e individuale, la Chiesa Romana brilla di luce propria, avendo cercato soluzioni a problemi interni mescolando razze senza uno schema culturale d’accettazione e condivisione.

L’azienda diventa così un modello di condivisione e formazione, puntando a definire una comunità. Nuove regole, atteggiamenti, abbigliamento, stili, orari, forme verbali.

Il dipendente della società zx non è più solo colui che lavora (come stabilisce l’attuale diritto) ma al contrario un personaggio aperto al confronto su stili di comportamento collettivamente concordati, per quell’impiego e non altri. Sicuramente chi legge pensa “bello ma teorico”, oppure “meglio che non sia così”, ma certamente il dibattito si apre.

La Nazione è un concetto troppo grande e ormai obsoleto quindi subentra l’azienda, formando un’idea di dipendente su cui lavorarci intorno, ipotizzandolo come un eterno cantiere in elaborazione. Riappropriandosi d’idee e concetti e sentendo il posto di lavoro come una parte della vita (vedi Giappone) la produttività, l’abbattimento dei costi di produzione, la qualità, pulizia del posto di lavoro, il sorriso e una vita degnamente vissuta potrebbero ritornare sui nostri volti scuri. Auguriamoci buon lavoro.

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