Reshoring. Studi sulla globalizzazione del prof Carlini

Reshoring, appunti. Perché tornare in America in questi giorni di primavera?


In questi giorni di primavera “debbo” tornare negli Stati Uniti, non tanto perché molto coinvolto nel “super martedi”, per capire ancora di più chi sarà il prossimo presidente eletto in novembre, ma per studiare un nuovo evento: il ridimensionamento del concetto di delocalizzazione. Uno dei punti più critici addebitati all’attuale amministrazione consiste nell’aver fatto molto poco (nulla) non tanto sulle cause finanziarie della crisi del 2008-2012 (il che è già una critica formidabile) ma il non aver saputo gestire l’emorragia di posti di lavoro.

Ebbene, nonostante sia fortemente negativo verso il Presidente per cui auspico un cambio di gestione, debbo riconoscere che solo ora, in campagna elettorale, negli USA si sta registrando un simbolico rientro d’attività manifatturiere dai Paesi emergenti.

Perché? Ritengo la globalizzazione un evento sbagliato e superato, ma solo adesso ci sono finalmente i numeri reali per poter agganciare le sensazioni e gli studi alle tendenze in atto.

Il Boston Consulting Group ha appena pubblicato uno studio (Made in America, again) dove si regista un modesto rientro d’aziende americane prima delocalizzate causato, specificatamente per il caso cinese, da:

a) un importante rialzo del costo della manodopera cinese;

b) presenza d’incentivi per favorire il ritorno delle industrie in Patria;

c) un’ossessiva presenza del Governo cinese (il partito) in ogni ramo d’attività, piegando e distorcendo le finalità economiche a quelle politiche (aspetti che in una dittatura assumono dimensioni molto pesanti);

d) la scoperta che il mercato interno cinese ha un senso solo per alcuni articoli, ma non per altri (vanno bene fertilizzanti e trattori ma molto meno l’informatica);

e) forti spese di trasporto se si dovessero reimportare i prodotti in Patria;

f) un oggettivo rischio Paese (già descritto su SIDERWEB in autunno, come prospettiva di collasso sociale per la Cina);

g) una generalizzata povertà nei Paesi in via di sviluppo, che non giustifica un apparato industriale così imponente e la riscoperta dell’importanza dell’ambiente sociale, giuridico e politico nel quale si vive e produce (incertezza del diritto in Brasile, Russia, India e Cina, presenza di dazi in Brasile, eccetera) che favorisce senza confronti l’Occidente.

Questi aspetti, messi tutti insieme e finalmente considerati allo stesso momento, hanno comportato un rallentamento delle attuali delocalizzazioni (per cui scende il tasso dal 10 al 2%) e un contemporaneo re-ingresso di aziende in Patria, precedentemente schierate nei paesi “bric” che accelera del 15 e a volte anche del 20%.

Onestamente le cifre però non quantificano la reale consistenza del fenomeno. Dove ogni anno negli USA s’importano 1.000 miliardi di dollari (da cui una forte disoccupazione) da produzioni manifatturiere delocalizzate, adesso il reshoring, in tutto, ha interessato appena 50 miliardi di dollari. Un valore così esiguo sul totale, appena il 5%, non permette d’andare oltre che registrare una tendenza contraria all’abitudinario, che inizia ad avvalorare delle tesi sinora discusse, ma prive di numeri sui quali contare.

Stiamo per assistere a un cambio di cultura produttiva auspicato sempre di più negli ultimi mesi e anni? Per chi ritiene un furto di ricchezza (peggio degli evasori) la delocalizzazione per reimportazione può credere a un cambio di tendenza, anche se, più credibilmente, si sta rientrando da un eccesso. Ecco la parola magica. Dal 2000 ad oggi, praticamente tutto, ivi comprese le quotazioni al LME hanno ruotato intorno alla parola “eccesso”. Concetto dal quale non è difficile pensare a un robusto ridimensionamento.

In questo quadro, meno scappatelle fuori dalla coppia, contrazione del numero di autovetture per famiglia, meno viaggi, meno soldi in contanti e così via, per cui “il ritorno” assume ruoli culturali e non solo consumistici. L’America ci ha sempre anticipato le linee di tendenza dai tempi di Tocqueville.

Sicuramente, per chiunque si trovi alla Casa Bianca fra pochi mesi uno dei primi problemi sarà l’eccesso di disoccupazione da gestire “creando” posti di lavoro. Nel 1933 si costruì un Paese con le opere pubbliche, oggi si smette di far produrre anche le padelle e posate alla Cina per le necessità del mercato interno. Evviva il rientro dagli eccessi; significa civiltà.

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