Psicopatia come concetto e definizione. Oggi a lezione ho definito la psicopatia come una fabbrica che lavora su 3 turni con un grande-grandissimo impegno, al massimo delle umane capacità, ma da cui non esce nulla, assolutamente niente! Un lavoro “enorme”, impressionante che non è capace di giungere ad alcuna produzione concreta. Questo è uno psicotico, psicopatico, antisociale.
Definendo in questo modo la psicopatia e osservando con attenzione il viso degli studenti, si scorgono le immagini che scorrono davanti ai loro occhi. Si sente che si rivedono, riconoscono magari i genitori, parenti e amici.
In realtà un atteggiamento squisitamente includente, da psicopatico, lo abbiamo avuto tutti in una fase come nell’altra.
Non c’à malattia nell’occasionalità o scatto come reazione d’impeto ai fatti della vita.
La patologia s’annida e cova il suo divorare l’anima della persona nella continuità di medio lungo periodo.
Servono atteggiamenti consolidati, ripetuti e quasi “posseduti” dal paziente, per confermare un’idea di diagnosi in psicopatia.
Ricordo nei pazienti di Parkinson, studiati sotto profilo sociologico, una decisa assuefazione alla malattia nei termini di convivenza. Il malato e la malattia si confondono in un tutt’uno. Da questo binomio è impossibile uscirne fuori in termini di militarizzazione della risposta alla malattia. I casi di reazione e ancor meno di vincita sul male, sono rari. Ne consegue che il male della malattia non risiede solo nel fatto degenerativo, ma nella convivenza prima forzata e successivamente assuefatta del malato al male. Certo chi “c’è di mezzo” deve fare buon viso a cattivo gioco; è comprensibile, ma non condivisibile.
La malattia di lungo periodo divora il paziente trasformandolo in suo primo servitore. Accade o è sempre così, ma non vuol dire che non si possa reagire!
Made in China? No I can’t buy it. Prof Carlini