La locomotiva tedesca esce dalla stazione. Prof Carlini

Locomotiva tedesca in uscita dalla stazione: secondo articolo della serie

Locomotiva tedesca come traino e condizionamento nella Ue.

Nel primo studio pubblicato è stato scritto: l’exploit industriale ed economico tedesco ha radici soprattutto sociali prima ancora che finanziarie e macroeconomiche. Sembra un’affermazione scontata, ma laddove si volesse imitare il “modello tedesco”, il punto di partenza non è dentro la produzione, ma nella capacità dell’impresa a intrattenere e aprire relazioni sociali (dipendenti orgogliosi d’esserlo e dotati di una missione) e anche industriali (discutere con il sindacato non più di solo busta paga, ma qualità di vita nel posto di lavoro. Vedi “pacchetto Harz”).

Conosco grandi realtà nella stessa Brescia, ad esempio un’azienda spa da 120 dipendenti del settore edile, che non solo non sa relazionare sul piano industriale, ma ha anche avviato da anni una prassi dichiaratamente antisindacale. Oltre i giochetti di finanza sul bilancio, un tipo d’azienda di questo tipo non può che essere destinata a scomparire. Questo perché strutturalmente “sbagliata”, ovvero presenta un alto profilo di rischio sociale per insolvenza, posti di lavoro non più certi, tfr disperso etc..

E’ vero che il sindacato italiano è afflitto da una consistente componente d’immaturità, da cui cerca di svecchiarsi senza apparente successo, però resta un interlocutore senza il quale la componente sociale dello sviluppo non va avanti. In pratica, l’industria italiana (la parte migliore, ad oggi, della società nazionale) necessita di un interlocutore sindacale, che oggi è ancora incapace di relazione in forme adeguate ai tempi. Orfani di un contradditorio, gli imprenditori italiani devono “far da sé”, lanciando aggressive politiche sul personale per “tagliare l’erba sotto i piedi al sindacato”.

Non è vero che ognuno deve fare la sua parte, perché il fattore umano è determinante nelle imprese di ieri come di oggi, quindi in assenza di un serio sindacato, servono imprenditori e direttori del personale adeguati, nel saper curare questo aspetto.

In Germania, quella della locomotiva tedesca, il sindacato ha accettato e sostenuto le “gabbie salariali”, ovvero stipendi differenziati a seconda del costo della vita per singola area geografica. Questo è uno dei segreti del successo tedesco. In una recente ricerca (Istituto Ifo di Monaco, pubblicata in settembre sulla rivista Super Illu) comparando la Germania dell’Est all’Ovest, emerge che tra il 1991 e il 2009 il Pil dell’Est è raddoppiato rispetto l’Ovest (12%).

Il reddito medio di una famiglia dell’Est è passato dai 10.900 euro della caduta del muro (allora pari al 35% delle regioni occidentali) ai 19.500 euro del 2009 ovvero il 53% dell’Ovest. Sempre nel 2009 i lavoratori dell’Est guadagnano l’83% dei loro colleghi dell’Ovest (il valore era al 57% nel 1991). Con questi parametri per la prima volta dall’unificazione, il numero di disoccupati dell’Est è sceso sotto il milione, restando però percentualmente ancora elevato (11,5% nell’agosto 2010 quando era al 18% anni fa, laddove all’Ovest è oggi al 6,6%)
Ovviamente l’intero processo è stato sostenuto da una grande quantità d’investimenti pubblici, tesi a svecchiare il parco infrastrutturale sia produttivo che nei servizi dell’Est. La conclusione è che a 26 anni dalla riunificazione, il costo del lavoro nella Germania dell’Est è più basso dell’Ovest ma questo non è il solo motivo per cui in alcuni campi l’Est è più competitivo.

Studiando questi dati, il paragone corre verso il Mezzogiorno d’Italia, tale dal 1861. Se i tedeschi in 26 anni hanno fatto quello che gli italiani non sono riusciti in 150 anni, ecco dov’è la differenza tra 2 popoli. Al di là su tutto quanto qui documentato, passando a una fase operativa, cosa le nostre imprese possono fare, non potendo trasformare il Sud italico nell’Est germanico?

Gli imprenditori italiani devono capire che il costo del lavoro non è l’unica determinante nella produzione, al contrario c’è l’innovazione e quindi la produttività. Su tutto ciò c’è il dipendente da addestrare, educare, elevare e anche licenziare se necessario. In una parola serve una politica del personale! Chi non ha il dono di unire uomini, mezzi e risorse per farli lavorare bene, chieda aiuto o impari; ecco perché a 50 anni sto ancora studiando e apprendendo come un normale scolaro! Buon lavoro.

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