L’Italia è fondata su quale tipo di lavoro solo dipendente?

L’Italia è fondata sul lavoro non solo subordinato come autonomo ma anche d’impresa!

L’Italia e la sua Costituzione dove si dichiara che questa Repubblica è fondata sul lavoro. Un concetto ampliamente condivisibile, ma chi ha detto che questo lavoro e subordinato e autonomo? Francamente ritengo sia stato volutamente trascurato un altro aspetto della tutela per il lavoro: quello d’impresa. Mi spiego.

Credo nel sistema delle imprese come valore sociale non solo come espressione di un imprenditore che l’ha concepita. Indubbiamente “tanto di cappello e rispetto” al creatore dell’azienda come luogo di aggregazione e incontro di domanda e offerta, ma ciò che ritengo importante

E’ IL CONCETTO DI IMPRESA COME GARANZIA SOCIALE DI BENESSERE PER LA NAZIONE.

La civiltà del lavoro non risiede, secondo me, nella difesa a oltranza del posto di lavoro del singolo, bensì nella tutela del numero d’imprese in attività nel Paese.

Ne consegue che non sono molto interessato su chi al momento “abita” la fabbrica o l’ufficio perché è in transito generazionale. Al contrario pur avvicendandosi i padri con i figli, il luogo di lavoro resta come produzione di ricchezza.

Da queste brevi sintesi emerge un dubbio: VA TUTELATA L’IMPRESA O I SINGOLI POSTI DI LAVORO DEI DIPENDENTI? Io opto per una scelta “americana” per la quale credo nell’azienda che considero una persona (giuridica o fisica) con i suoi umori e “cinque minuti”, gioie e dolori, ambizioni, progetti e insuccessi, dove se un certo numero di dipendenti dovessero essere in sovrannumero preferisco sacrificarli pur di non veder morire l’impresa.

Andiamo nel concreto: affrontando vicende di questo tipo in una grande azienda, la proprietà mi chiede di seguire due casi di indisciplina da parte di altrettanti operai. Uno ha detto al Capo Reparto che gli avrebbe “tagliato la gola” (intimidendo quest’ultimo nelle sue funzioni d’istituto) il secondo, sempre verso un altro Capo Reparto, allorchè ripreso dichiara: so dove abiti e che hai una figlia. In entrambi i casi ho avvisato la locale stazione dei Carabinieri e richiesto provvedimenti disciplinari con annessa denuncia penale. Ovviamente ero indirizzato verso la liquidazione del posto di lavoro. Il sindacato è insorto. La direzione aziendale soddisfatta, per aver almeno reagito al problema ha dichiarato che tiene sotto osservazione la vicenda.

E’ solo un caso e neppure particolarmente grave, ma ribadisce un concetto: l’Italia non è la Grecia ma quasi (titolo di un mio articolo) e la differenza lo fa il numero di imprese manifatturiere in attività tra i due paesi.

Laddove questo ragionamento sia condivisibile, scatta un altro fronte che non riguarda più se sia saggia la difesa a oltranza del posto di lavoro rispetto alla sopravvivenza dell’azienda, ma il danno sociale prodotto dalla delocalizzazione quando questa implica la reimportazione nel paese di origine delle merci prodotte all’estero.

Ecco, secondo me, qual è il vero fronte di discussione tra forze moderne in una società avanzata rispetto la battaglia di retroguardia che svolge un sindacato privo di immaginazione e senso d’opportunità, che si trincera su una legge del 1970 (la 300 detta Statuto dei lavoratori)

Quarantadue anni fa l’Italia sbagliò criminalizzando l’utile d’impresa. Per quasi 50 anni il sistema d’impresa in Italia ha quasi dovuto chiedere scusa per lavorare e produrre ricchezza.

Ecco perché (non solo) gli imprenditori preferiscono emigrare anziché sottostare a leggi errate. Questo ragionamento riguarda anche il fisco. Però in un mondo dove la Confidustria ricerca solo il profitto e il sindacato non sa andare oltre la difesa “di quel che resta”, chi pensa al Paese? Qui dovrebbe intervenire la politica, ma non abbiamo una generazione di statisti in grado di saper comporre i grandi dissidi della Nazione.

Nonostante dal 1970 (anno infausto) l’Italia abbia dato voce alle Regioni e quindi alle Provincie (110) quando ci sono in attività 8.092 comuni, sono stati di fatto creati dei vivai per la politica dove allevare i futuri quadri e dirigenti di partito. In pratica garantire uno stipendio ai partiti politici. Se quest’azione può avere un senso come fabbrica di stipendi, non ci ha comunque offerto un nuovo Cavour, un nuovo Giolitti o un nuovo De Gasperi su cui far evolvere la Nazione. Quindi siamo orfani della politica, di fatto congelata da un governo tecnico non eletto, soli quando più di ogni altro momento avremmo avuto bisogno della grande politica, anziché di ragionieri e professori che asetticamente affrontano i problemi.

Questo è il dramma della nazione. Dal 1970 abbiamo tutelato “il lavoro” a scapito delle imprese (che sono spesso fuggite) e lanciato delle fabbriche di stipendi (enti locali) senza ottenere classi dirigenti illuminate.

Concludendo con amarezza, il vero quesito è: meglio tutelare il lavoro del singolo o preoccuparsi della sopravvivenza del sistema d’imprese in Italia? Ovviamente entrambi questi aspetti meritano tutela, ma solo se posti sullo stesso piano, anziché come negli ultimi decenni si è voluto favorire solo uno dei due, affrontando il tema dal lato meramente ideologico e di parte.

Viva l’Italia se i cittadini li abbiamo educati a sentirsi italiani.

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