L’internazionalizzazione è cambiata a partire dal giugno 2016. Pochi se ne rendono conto e ancor meno sanno come muoversi. Questa “paralisi” conferma un concetto molte volte ribadito in questa sede. La classe imprenditoriale nazionale è orfana di un’Accademia o corso universitario in “imprenditoria”. Tradotto in termini pratici, manca la classe dirigente nel sistema imprenditoriale italiano. Infatti l’85% delle imprese è “padronale” (Il Sole 24 Ore del 18 gennaio 2017 – pag. 10). Essere “padronali” vuol dire spesso (troppo) che i manager sono figli dell’imprenditore. In questo caso la “colpa” non è tanto e solo essere “figli”, quanto non avere i titoli per il ruolo di manager. Troppo giovani, senza esperienza e studi adeguati. Chiarito il perchè ci sono 3,5 milioni di disoccupati in Italia (inadeguatezza della classe imprenditoriale) esaminiamo le novità.
Il secondo step è più complesso. Scordarsi di poter esportare il prodotto direttamente nel mercato di rifermento. E’ molto probabile che l’Inghilterra, dopo i prossimi 24 mesi, rappresenti il solo port of entry delle merci Ue negli Usa. Ciò significa subire un dazio che potrebbe anche essere del 20%. E’ sufficiente questo singolo passaggio per rivoluzionare l’intero concetto d’internazionalizzazione.
Come organizzare il futuro per quelle imprese che non vogliono restare tagliate fuori? E’ semplice. Le PMI italiane attraverso un contratto in rete devono aprire una sede estera. Fin qui è facile. Il difficile sta nel trovare un RESIDENTE ESTERO che sia italiano capace d’ambientarsi per lungo tempo all’estero. Dev’essere un manager addestrato in azienda e proiettato sui mercati. Non può essere un baby manager. Il RESIDENTE ESTERO è un cinquantenne con 30 anni d’esperienza al suo attivo, meglio se da settori diversi.
Made in China? No I can’t buy it. Prof Carlini