La crisi del consumo nella dispersione culturale dell’era post globalizzata

La crisi del consumo nella dispersione culturale dell’era post globalizzata. Appunti di studio in sociologia applicata.

 

La crisi del consumo, ovvero la contrazione delle quantità acquistate dalle persone è sotto gli occhi di tutti. Perchè siamo giunti a questo punto aprendo una fase di aperta crisi e ridimensionamento della globalizzazione? Per poter capire cosa “ci sia dietro” o quali siano le cause scatenanti la crisi del consumo, serve partire dal concetto di cultura e della sua identificazione con il consumismo. Detto meglio, per capire chi siamo e cosa siamo, serve identificare gli stili di consumo che abbiamo adottato. Ecco che consumare non è più solo sprecare, quanto esprime un modello di comportamento. Da questo semplice parallelismo: consumo e cultura, parte una riflessione a tutto campo di sociologia pura. Buona lettura.

La cultura come insieme di valori e comportamenti è rappresentata, nella società, da due diversi ambiti: una dimensione accademica, definibile “alta” e un’altra antropologica, (più propriamente entnologico) intendendo un insieme di pratiche simboliche stratificate nel tempo e nell’abitudine delle persone appartenenti a un clan.

Grazie a queste parole nasce l’approccio sociologico alla cultura. Successivamente all’oblio del pensiero sociologico sulla cultura, che contraddistingue gli anni 30 del Novecento, finalmente si forma un pensiero nuovo grazie al sociologo statunitense Talcott Pearsons, (1902-1979).

Pearson seppe riportare la cultura al centro della società, riconoscendole un universo simbolico. Ciò vuol dire non limitarsi al solo comportamento riconoscibile tra persone attraverso la traduzione, ma la ricerca di un valore sociale che possa coagulare le esigenze delle persone “smarrite” nella società. Seguendo questa traccia di ricerca, Parsons seppe elaborare una teoria generale dell’azione sociale. Un’evoluzione di questo livello permise di superare la meccanica visione antropologica della cultura, quella già accennata, capace di concepire il rapporto culturale, come insieme di costumi e abitudini sedimentati nel tempo. Parsons nella sua ricerca recuperò il pensiero di Max Weber ed Emile Durkheim, allora poco noti nel panorama sociologico statunitense, portando la cultura non più a qualcosa che ‘’si tocca’’, (comportamenti e manufatti) ma a un sentimento e un atteggiamento simbolico capace d’essere fisicamente rilevante (emozione della partecipazione). Non solo, Parsons richiamò anche N. Elias (1897-1990) e la sua preziosa sensibilità narrata nel testo ‘’La civiltà delle buone maniere’’, dove la cultura è ancora una volta concepita come “simbolo”.

Merita, in questo testo, una citazione direttamente da Parsons: “La cultura è costituita – nei termini dello schema concettuale di quest’ora – da sistemi strutturali o ordinati di simboli che sono gli oggetti dell’orientamento dell’azione, da componenti interiorizzatedella personalità dei soggetti agenti individuali e da modelli istituzionalizzatidei sistemi sociali. I termini in base a cui sono qui analizzati i fenomeni culturali rappresentano – come accade per qualsiasi altra componente dei fenomeni dell’azione – costrutti teorici che lo scienziato sociale impiega per ordinare le sue osservazioni, per formulare i suoi problemi e per dare una cornice concettuale alle sue interpretazioni”. (Parsons 1951: trad. it. 1981, 335-336)

Chiarita l’impostazione concettuale e tradizionale è interessante proiettare la cultura intesa come valore e simbolo ai tempi attuali, dove stiamo assistendo alla frammentazione della società, anziché la sua unione, com’era stato promesso dalla globalizzazione. Per poter attualizzare i concetti appena descritti e ancora da approfondire, serve equiparare la cultura al consumo. In pratica il consumo è considerato, ai fini di questa ricerca come il criterio di traduzione e applicazione della concezione culturale alla vita quotidiana. Come si fa a definire culturale una persona se non attraverso i suoi stili di consumo?

Entrando in questa visuale, la crisi del consumo è anche crisi della società.

Nel consumo, come ha spiegato Vera Zolberg nel 1986, avviene la vera e inequivocabile identificazione sociale grazie al quale nasce il concetto di ‘’clan/gruppo’’. Appunto l’identificazione, aspetto fondamentale del processo consumistico, è oggi in crisi, in particolare dal giugno 2016 subendo una sorta di trasformazione. Per meglio cogliere la crisi in atto è necessario studiare il cosiddetto fallimento della globalizzazione. Da evento aggregante, la globalizzazione, intesa in senso culturale, è diventata un limite aggregativo, spaccando le strutture sociali, come si è evidenziato con la Brexit in Europa nel giugno 2016, quindi la nomina di Donald Trump a novembre di quello stesso anno e l’elezione politica italiana del 4 marzo 2018. In tutti questi eventi, il simbolismo consociativo della globalizzazione si è frantumato. Infatti gli inglesi, hanno dichiarato che è meglio essere britannici piuttosto che europei, Donald Trump persegue ‘’American First’’ e in Italia, il 70% degli elettori non concordano con le scelte politiche adottate dal 2011.

Da quanto esposto, la prima vittima della rinascita nazionale sociale è, il calo del commercio e del consumo. Appunto la crisi del consumo. L’azione consumistica, in presenza di dazi non è più simbolo e aggregazione mondiale. In una nuova dimensione cultuale, quindi nazionale e protetta da dazi, il consumo ricerca il riconoscimento di valori e il suo spazio sociale nelle comunità (anziché società).

Mi spiego.

Nel periodo 2000-2005, il consumo come distinzione sociale, ha prevalso in tutto il mondo, inseguendo modelli di ricchezza più teorici che reali. Con la globalizzazione, sviluppata soprattutto in termini di delocalizzazione, è tornata la disoccupazione, capace di frantumare il valore sociale del bene, quindi il connesso consumismo ora entrato in fase riflessiva.

La crisi della società moderna, 2016-2018, ritrova nella singola nazionalità la prospettiva simbolica, prima globale.

Ad oggi ancora non sappiamo se la dimensione nazionale sia un bene o un male rispetto a quella globale che ha tradito le promesse di benessere per l’Occidente.

Riprendendo la meditazione storica e la connessione sociologica tra consumo e cultura, Parsons, giustamente, negli anni 50 evidenziò la cultura come simbolo, transitandolo da aspetto fisico a valoriale. Successivamente sempre su questa strada, Pierre Bourdieu, contestualizzò il valore culturale nelle forme di consumo che si sviluppano in base a precisi ‘’capitali’’ posseduti.

Ecco che in questo modo la cultura non è più un atteggiamento stratificato nei secoli, ma un modello di consumo.

Si aprì così il passo successivo con la già citata sociologa Zolberg giungendo al concetto di “arma sociale’’ per il consumo da distinzione ed esibizionistico. L’intera identificazione qui sintetizzata, tra valore e consumo, ha però spinto verso un mercato globale in crisi, perché non sono state rispettate le diverse visioni culturali del pianeta Terra (9).

Gli studi sviluppati da S. P. Huntington, per quanto contestabili e discussi, sono stati calpestati dal bisogno di produzione standardizzata, uguale per tutti, che la globalizzazione ha imposto al pianeta. Concetto già stigmatizzato dal sociologo Zygmunt Bauman, recentemente scomparso.

In un contesto così trasformato, la teoria dello spazio sociale, meravigliosamente espressa da Pierre Bourdieu, non è più attuale per quanto affascinante. Nonostante ciò siamo tutti debitori, verso gli studi del sociologo francese, con un pizzico di nostalgia per un mondo ordinato non più attuale. Marc Augé, nel concetto  di ‘’non luogo’’, e del ‘’non tempo’’ seppellisce l’eleganza del consumo disegnata da Bourdieu.

Oggi serve una nuova teoria del consumo e della cultura. Da qui nasce la crisi del consumo.

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