La cattiva interpretazione del lavoro rappresenta uno dei passaggi più interessanti della nuova generazione impegnata nelle prime attività lavorative.
Ho notato in forma diffusa, in diverse imprese e per posizioni molto differenziate tra loro, uno spasmodico attaccamento al lavoro da parte dei giovanissimi. Bello! molto bello ma. Ecco il punto, c’è un “ma” grande come una casa. Il grande attaccamento al lavoro vissuto con impegno e responsabilità, andando ben oltre l’orario di lavoro, in forma sistematica, espone al successivo rifiuto. Quel “ma” studia il successivo rigetto che con certezza avverrà nei confronti di quell’iper impegno già profuso verso il quale sorgerà rancore per l’impresa che “non ha apprezzato”. Mi spiego meglio.
Il giovane lavoratore giustamente ce la metta tutta nel lavoro, stravolgendo la sua vita personale ormai piegata alle necessità del lavoro. Un impegno capace di durare anche degli anni.
A un certo punto, idealmente 36 mesi dopo il primo ingresso in attività, il “giovane” non è più tale, si sente navigato e “stanco”. Fin qui ha anche ragione. Però subentra, nella fase di stanchezza, anche una sorta di rivalsa verso l’impresa che ha ricevuto e spesso non adeguatamente remunerato quest’eccesso di zelo-passione.
L’azienda, “rea” di non aver saputo interpretare quella stagione di passione che il giovane ha bruciato, diventa così l’obiettivo di un astio sotterraneo che porta a: cambio d’attività lavorativa (esodo) o di contenzioso e bassa produttività. In pratica si capovolgono le parti. Partiti con uno sprint formidabile, s’atterra malamente in una giungla di ripicche, rimorsi, rimostranze, astio, nervosismo.
Perchè accade tutto questo? Semplice! Le imprese hanno voluto lesinare (risparmiare) sulla funzione del personale esponendosi a queste contraddizioni nei termini di spreco delle risorse umane. Che peccato!