Il Parkinson è un male antico che viene curato con tecniche obsolete. In questo studio, che si basa su un’impostazione squisitamente sociologica, si ritiene che la malattia nervosa sia assimilabile a una prigione, capace d’incapsulare uno spirito sano. Ecco da cosa nasce il titolo italiano della ricerca: il Prigioniero da Parkinson. E’ possibile far evadere dei prigionieri a patto che effettivamente lo vogliano? Il dubbio è d’obbligo perché, come emergerà in seguito, il vero ostacolo a una cura sociologica del Parkinson, da affiancare a quella medica e psicologica, sono proprio i prigionieri (malati) che non vogliono più lasciare quel male che attanaglia loro.
Ovviamente da parte della Medicina ufficiale c’è una presa di posizione molto rigida, verso la teoria del Prigioniero da Parkinson, anziché di collaborazione, al fine di sgombrare il campo da qualsiasi idea di concorrenza, presunta o reale che sia.
In questi termini, con l’ostilità di fondo del paziente che preferisce compatirsi anziché reagire e il blocco operato della scienza, che non gradisce altri punti di vista, l’apporto della sociologia per garantire una degna qualità di vita, anche ai malati di Parkinson e Alzheimer, resta bloccato.
Però, scavando nella ricerca, emerge come “il dolore” non sia stato sufficientemente studiato quale atto modificativo del comportamento. Infatti le persone che soffrono, in particolare su un lungo tratto di vita, modificano il modo di relazionarsi per cui vorrebbero da se stesse un modo di fare/essere/dire, che in realtà non realizzano, ottenendo spesso il contrario.
Altre volte, invece, nasce l’invidia verso i sani e un macelato senso di vittimismo. Tutte queste dinamiche non state ancora approfondite nella sociologia che resta muta (quel silenzio della sociologia che impressiona) dove emerge il bisogno di una nuova materia: The Pain sociology – La sociologia del dolore. A questo punto il quadro cambia completamente.
Spingendosi oltre i capricci dei malati e la gelosia della scienza, indagare il “dolore” coinvolge una platea enorme di persone.
Questo breve saggio ha una missione: come vox clamanti in deserti, desidera spiegare alle persone che soffrono, che ci sono gli strumenti per aggredire “il male” nella malattia. Il guaio è che non basta prendere una pillola per non sentire la sofferenza, ma serve una disciplina individuale (ecco il punto di rigetto dei malati di Parkinson italiani verso la Teoria nota come Il prigioniero da Parkinson) per riabilitare il meglio che c’è dentro di noi, confermando ancora la dignità dell’umano sulla malattia. Serve quindi leggere di più, amare di più, sentire di più, capire di più, dipingere di più, fotografare di più, viaggiare di più, passeggiare mano nella mano di più, litigare di meno e pensare di più, per vivere più a lungo. La medicina resta potente, la psicologia necessaria, ma a questo punto serve anche la sociologia del dolore, per migliorare la relazione sociale di chi, soffrendo, uccide la sua umanità non reagendo.
Ecco perché è nata la teoria sociologia nota come Il Prigioniero da Parkinson.
Arrivare a oltre 90anni è una lotta. Prof Carlini