Il fattore umano nella crisi. Prof Carlini

Il fattore umano come unico modo per uscire fuori dalla crisi

di Giovanni Carlini, sociologo e uomo di marketing

Ho la casella di posta elettronica invasa da messaggi, che più o meno chiedono la stessa cosa: come se ne esce da questa situazione. All’inizio cercavo soluzioni diverse cucendole sulla pelle dei singoli interlocutori, ma poi mi sono arreso all’evidenza: è il fattore umano che fa la differenza.
Mi spiego.
La liquidità ha il suo peso in azienda, come i mercati e le strategie, quindi una politica di marketing e il rapporto con il cliente. Quanto elencato ma non solo, rappresentano tutte “belle” cose, però c’è sempre di mezzo il fattore umano. Vuol dire l’addestramento delle persone, che da solo è in grado di modificare completamente l’esito di ogni sano progetto. Qui si torna al punto di partenza: per tentare di gestire la crisi è sempre necessario contare sulle persone che credono nell’ azienda.

Il problema è come far maturare una classe di dipendenti di questo tipo. E’ il problema che gestisce il fattore umano.

La classica risposta è nell’adottare una politica del personale. Detto questo però, siamo sempre al punto di partenza, come si progetta e favorisce uno schema comportamentale che identifichi lo stile di un’impresa? Per prima cosa serve un “capo branco”.
Nelle PMI questo è il ruolo tipico dell’imprenditore, in quelle più complesse va ricercato un apposito direttore del personale che sia capace d’assumere il ruolo di leader. Laddove questa funzione per un professionista non sia particolarmente difficile da svolgere, chi più ne soffre è proprio l’imprenditore che vive questo crescere “in casa sua” come se fosse concorrenza o una sorta di corpo estraneo (si ricordi il film della serie Alien)
Nel caso si riesca a risolvere questo antagonismo (primo stadio) ora servono i contenuti. 
Su quest’aspetto “apriti cielo”, perché veramente si può dire tutto e il suo contrario.
Sicuramente la gente, noi tutti siamo ammalati di nichilismo, misto con apatia/indifferenza, per cui il primo impegno di chi vuole lavorare sul fattore umano è quello di rompere questa immaturità.
Va sempre ricordato, quanto la noia sia una malattia. Patologia che ci riguarda tutti, chi più chi meno, in quanto alziamo “la noia” a difesa da un impegno più forte.
Ecco il problema: il non impegno, lo schivare, l’evitare di fare-dire-pensare.
Se questo è l’ostacolo primo (rompere la noia) la procedura per superarla è quella “dell’impatto facciale”, ovvero un contatto molto duro e immediato con nuove regole e stili di direzione.
Lo shock che ne deriva produce una forte reazione di sorpresa, spesso di reazione, che viene gestita grazie “all’esempio negativo”, ovvero di colui che normalmente viene licenziato all’ingresso e inaugurazione della nuova politica del personale, perché ha accumulato un certo numero di richiami o si trova da molto tempo “border line”.
Pertanto, l’atto numero 1 della nuova politica del personale, in un’azienda che vuole governare il mercato, alzando la partecipazione dei dipendenti, è quello di licenziare chi non ha rispettato le regole, per di più sotto gli occhi di tutti. L’importanza dell’esempio negativo è fondamentale in ogni processo educativo. Nel contesto familiare, si ottiene questo passaggio tra prima del richiamo e dopo, grazie al quale il bambino capisce quanto era prima e cosa è diventato adesso, estraniandosi di conseguenza da ciò che aveva fatto o detto. 
Se questi passaggi sono noti nella pedagogia più comune, spesso vengono, con altrettanta semplicità dimenticati nella dinamica adulta, altamente sindacalizzata e nichilista, refrattaria a qualsiasi forma di confronto costruttivo.
Superata la “parte dura dell’incontro”, appunto la fase 1, ecco che nasce il bisogno d’aggregazione che consegue sempre a uno stress. Quando tutti sanno che il loro posto di lavoro è seriamente messo in discussione, allora nasce quel sentimento del “siamo nella stessa barca”, gravido della partecipazione al clan aziendale, all’impresa, al suo logo e quindi prospettive.
Per fare questo servono “i riti” ovvero quelle azioni ripetitive, note a tutti e per questo sicure ma desiderate, che tranquillizzano e consolidano il rapporto. Purtroppo la mente si sente sicura solo in un ambiente consolidato e conosciuto, quindi pieno di abitudini consolidate. L’obiettivo, in questo caso, non è la tranquillità dei dipendenti, ma il fargli capire che per esserlo, devono “trasferirsi” verso l’identificazione tra loro e le sorti dell’impresa. Quando questo avviene, i costi di gestione dell’azienda scendono, mediamente dell’8-12% il che rappresenta la differenza tra il restare o uscire dal mercato. Il vero ostacolo, al successo di una trasformazione aziendale di questo tipo, non sono i dipendenti che anzi, apprezzano, ma molto spesso la stessa proprietà, che inizialmente lancia un processo di sviluppo di cui se ne spaventa, non riconoscendosi più nel nuovo contesto.
Ecco perché spesso le aziende muoiono. Nasce ora un concetto. L’impresa, per poterla capire, va assimilata alla personalità di un essere umano (spesso di sesso femminile, quindi volubile ma resistente) che vive tutto il suo ciclo di nascita, crescita, maturità, malattia, cura, rilancio e morte. Come le persone, servono anche i “vestiti per la festa”, le belle cene e un importante mazzo di fiori sulla scrivania. L’esperienza e la pratica, in questo campo sono consolidati, ma i nostri imprenditori sanno capire quant’è ormai ovvio?

 

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