Globalizzazione e crisi: subprime. Studi del Prof Carlini

quello che dovremmo fare anche noi

Le motivazioni alla crisi subprime – scritto nel 2008

In cosa consiste la crisi subprime
di Giovanni Carlini

Le premesse alla crisi

L’11 settembre 2001 come atto terroristico sul suolo degli Stati Uniti, nelle sue conseguenze, ha portato l’economia degli Usa ad una crisi dalla quale si doveva uscire quanto prima. La Presidenza Bush, attanagliata tra la conduzione sia strategica che finanziaria della guerra e investire per rilanciare il Paese, scelse una strada ben precisa: alzare il livello dei consumi. Da premettere che questa opzione non è affatto di minor profilo rispetto le altre possibili ed è alla base, ad esempio, del grande successo degli Stati Uniti all’indomani del secondo conflitto mondiale, quando si dovette riconvertire la produzione da bellica a civile. Utilizzando quindi la storia come traccia, il Presidente Bush, consigliato da Phil Gramm, (anima economica del candidato repubblicano alla presidenza, il Senatore McCain) lanciò nel 2002 il piano per allargare il mercato dell’acquisto della prima casa, anche a chi aveva redditi bassi. L’obiettivo fu semplice: aumentare i consumi interni e sostenere l’economia. Questo provvedimento, di natura macroeconomica, s’inserì e proseguì una tendenza già aperta dal Presidente Bill Clinton, quando nel 1999 firmò il Gramm-Leach-Billey Act, teso a deregolamentare il sistema bancario statunitense. In pratica si è voluto limitare l’azione di controllo delle autorità, lasciando libere le banche e quelle d’investimento in particolare, di muoversi velocemente, aderendo al mercato globalizzato, sempre in forte accelerazione. Quest’ultimo atto fu poi confermato da un altro del 2000, in cui si sottraevano le contrattazioni sui derivati al controllo delle Agenzie Federali, che appesantivano la velocità di reazione delle organizzazioni finanziarie ai fatti dell’economia. In pratica bisognava alzare la velocità di risposta delle banche agli eventi e ciò è stato fatto limitando ad aree più sensibili il controllo statale, confidando sulla responsabilità del sistema.

In cosa consiste la crisi subprime

Si parla tanto di una crisi, appunto la subprime, di cui se ne conosce ben poco nel meccanismo, benché abbia delle dirette similitudini con la nostra vita quotidiana. Insomma la crisi finanziaria subprime non è un “accidente” solo americano, anche se lì è scoppiata, ma ha una sua ragion d’essere in stili e metodi di vivere, che sono di noi tutti, in Occidente come altrove.
Passiamo alla descrizione tecnica della crisi subprime.
Il signor John, cittadino statunitense, vuole comprare una casa, vive negli Stati Uniti, non ha il reddito per farlo, ma ugualmente è interessato a dare alla sua famiglia un tetto dove vivere e conta su un lavoro stabile. Il periodo storico di cui stiamo parlando è tra il 2002 e il 2008. Il John si reca presso la sua banca e chiede 100.000 dollari per l’acquisto della casa, che gli vengono concessi. Il finanziamento è ovviamente impiegato tutto per l’immobile e la banca iscrive nel passivo del suo bilancio, non il nome del cliente, ma l’immobile per il suo ammontare. Allo stesso tempo la banca in questione emette obbligazioni, sul mercato domestico e internazionale per gli stessi 100.000 dollari, che sono sottoscritti immediatamente, grazie al suo nome e immagine. Con questo meccanismo l’istituto bancario ha “scaricato” sul mercato il rischio del prestito assunto con il Signor John e si dichiara pronta a elargirne un altro. Contabilmente la partita per l’Istituto di credito è “patta” perché tanto eroga, altrettanto entra dalle obbligazioni, più le rate del mutuo in corso d’estinzione. L’operazione è conveniente se riprodotta non solo sull’immobiliare, ma anche sul credito per l’acquisto d’autovetture e dall’utilizzo delle carte di credito.
La rata del mutuo da pagare per John è direttamente comparata con il valore di mercato dell’immobile, per cui se questi vale 100.000 dollari, la rata mensile sarà, mettiamo 100 dollari per la durata del prestito. Nel caso il valore della casa dovesse salire come valore a 120.000 dollari, il mutuo scenderà in forme equivalenti a 80 dollari e così via.

Se nei bilanci delle banche non entra il nome del soggetto che ha chiesto i fondi per comprare l’immobile, ma il bene, cioè la casa, ciò è per garanzia di solidità del bilancio bancario a favore degli azionisti (una casa non scomparirà mai, mentre colui che ha ricevuto i fondi potrebbe morire o non pagare più) è chiaro che ogni variazione del valore del fabbricato aumenta o diminuisce influendo sul bilancio della banca.
Come si sa gli immobili sono soggetti a continue quotazioni che ne monitorizzano il valore. Un aspetto che nella mondo subprime non fu mai preso in considerazione!
Infatti se l’importo della casa “x” sale, allora la banca riduce la rata di mutuo, perchè il rientro complessivo del finanziamento, disposto a suo tempo è diminuito, in quanto con ipotetici 100.000 dollari, adesso non si ha più un immobile che vale 100.000, ma 150.000 e il patrimonio della banca sale del valore residuo tra il nuovo di 150 e il vecchio, più le rate già riscosse. Quindi “in una situazione felice”, la banca abbassa il mutuo di quella percentuale che il valore dell’immobile ha ricevuto dal mercato. (In realtà la quota di riduzione è sempre leggermente meno, ma il concetto resta inalterato) Ciò che si contrae non intacca la linea capitale del prestito originario, ma quella degli interessi portandola quasi a zero, da cui il montante si riduce, tanto lo stesso importo originario è già rientrato nella banca grazie alle obbligazioni emesse. Fin qui francamente non c’è che dire, perchè si tratta di normale prassi bancaria.
Ciò che si può considerare “perverso” nella crisi delle obbligazioni subprime ed è anche alla base delle remore d’ordine morale, nel salvataggio di chi ha subito le conseguenze della crisi, riguarda il comportamento delle famiglie americane che hanno comprato e rivenduti immobili in questo periodo, 2002-2007.  Infatti, frenato dal giudizio morale, il Congresso americano, con tanta fatica ha varare un piano da 800 miliardi (700 effettivi + 100 di mancette) per fronteggiare la crisi subprime aiutando gli incauti giovani speculatori. Milioni di americani che hanno comprato poniamo a 100mila dollari la casa, tra il 2001 e il primo semestre 2007 e si sono trovati l’immobile a 150mila come nuova quotazione, dopo un certo numero di mesi dalla firma del contratto di compravendita, anche se hanno avuto la rata del mutuo ridotta, comunque hanno venduto il fabbricato, magari alla banca stessa, monetizzandone la differenza.
A conti fatti senza fare nulla, queste famiglie si sono trovate in tasca almeno, nel nostro esempio, 50mila dollari con il mutuo estinto senza aver lavorato o rischiato più di tanto. A quel punto le stesse famiglie hanno comprano un altro alloggio a sua volta monetizzato e così via.
E’ facile capire come queste “cicale”, provetti speculatori edilizi, si sono intascati molti soldi con estrema facilità, contro chi effettivamente lavora. L’ammontare dei guadagni può essere quantificato nell’ordine di 180-250 mila dollari/anno di guadagno complessivo in 2-3 operazioni di compravendita (come del resto anche in Italia senza coinvolgere le banche nella vendita dell’immobile)
Adesso che si tratta di salvare questi speculatori, il resto della nazione ci pensa due volte. Va precisato che non tutti coloro che hanno comprato casa negli Usa, abbiano speculato su questa opportunità, ma certamente una buona parte si. Ecco spiegato il versante morale della vicenda che pesa non poco sugli equilibri sociali della Nazione.

Non solo, ma l’invenzione di coprire con prestiti obbligazionari il contemporaneo finanziamento immobiliare, risponde al bisogno di una finanza creativa che poco produce, se non montagne di carta. Qui si apre il dibattito sull’aver permesso a giovani rampanti, senza esperienza, quindi poco più che trentenni, d’occupare posizioni che richiedono esperienza e sagacia, ottenibile solo dopo anni e anni d’esperienza. In pratica i cinquantenni non sono sostituibili dai ragazzini. Su tale versante della crisi c’è un ritorno, almeno negli Stati Uniti, al bisogno di formazione e carriera con il desiderio di affidarsi a manager governativi decisamente maturi negli anni e dotati di capacità critica.
Tornando alla dinamica della crisi subprime, con l’inversione dei prezzi degli immobili, le banche americane hanno automaticamente alzato le rate mensili dei mutui, senza effettivamente considerare le condizioni di vita dei loro clienti. Così facendo il sistema creditizio ha di fatto strozzato i clienti, che hanno dovuto cedere l’immobile (a ottobre 2008 ci sono 3 milioni di case in queste condizioni). Le banche però non si sono rese conto che “uccidendo” i clienti, si sarebbero scavate la fossa, nel senso che il fallimento di una parte, avrebbe solo anticipato quello dell’altra.
Recuperando gli immobili dai clienti morosi, le banche li hanno dovuti rivendere ad altri clienti o all’asta, i quali hanno comprati a prezzi irrisori. A fine settembre 2008, una signora americana, ha comprato un immobile per 1 dollaro e 75 centesimi! Se i termini di raccordo sono 100.000 dollari contro 2 dollari scarsi, è palese che la ricchezza della banca viene meno e si spiega pure come, in caso di fallimento dell’Istituto di credito, chi rilevi l’istituzione fallita, sottopaghi l’attivo della società che da 200 miliardi di dollari (caso Lehman Brothers) diventi si e no solo 85 (quanto la banca britannica Barclays ha pagato per rilevare quella d’investimenti statunitense a sua volta nazionalizzata dal governo britannico).
I titoli emessi a copertura del prestito immobiliare si chiamano subprime, perché fanno riferimento a due aspetti: alla catena di negozi che vendono panini (molto buoni e confezionati sotto gli occhi dei clienti) con il marchio SUBWAY e al nome “prime” che indica il meglio del meglio, della carne in vendita. I subprime sono quindi il miglior concentrato di carne mangiabile. Nello specifico rappresenterebbero il meglio delle obbligazioni possibili, perché tratte da più banche e tutte basate sul “solido mattone”.
Il meccanismo qui descritto ha però un difetto; funziona solo finchè i corsi delle case sono in crescita e ciò dimostra l’inesperienza di chi lo ha progettato e attuato.

Cosa emerge da questa analisi

a) Gli istituti di credito come del resto tutte le imprese nel mondo, hanno compresso i tempi di maturazione della carriera dei propri funzionari, lasciando salire in ordine e importanza dei ragazzini privi di esperienza e maturità;
b) La speculazione sulle case non è un “gioco” solo statunitense. In Italia coinvolge i box per le autovetture come gli appartamenti e l’inversione di tendenza del prezzo, indotta da eccessi di crescita è credibile negli Usa, come in Spagna, quindi in Irlanda e per forza di cose nel nostro paese.
c) Le banche farebbero bene a capire che si fallisce insieme con il cliente e questo vale soprattutto quando la crisi non coinvolge uno su tanti, ma tanti su tanti. Andrebbe meglio considerato il punto di pareggio nella gestione “politica” del cliente e non solo finanziaria nell’interesse degli azionisti delle banche. Va precisato che le banche fallite non sono sole quelle d’investimento, che fanno notizia sulla stampa internazionale, ma nel 2008 ci sono decine di piccole banche, con annesso deposito & prestiti che sono saltate.
d) Le banche come le assicurazioni sono imprese come tutte le altre per cui falliscono. Non solo, ma la banca e l’assicurazione “vendono” un prodotto in più rispetto il normale: la credibilità. Le banche offrono quella stabilità che non è affatto scontata in un sistema economico, ma va coltivata giorno per giorno. Qui si riprende, ampliandolo, il concetto che il fallimento di uno comporta anche la crisi per l’altro. Serve a questo punto un nuovo patto banca-assicurazione-cliente, che sappia chiarire e ridefinire gli ambiti d’intervento e d’eventuale assistenza. In Italia non basta più una “Basilea 2” pensata solo a tutelare gli istituti di credito, ma si ambisce a una “Basilea 3” che pensi a entrambe le controparti in gioco: cliente e banca.
e) La crisi Usa è la messa in mora di un metodo che considera la finanza “mezzo e fine” per creare ricchezza, quando ciò non è vero. La finanza non crea nulla, re-distribuisce soltanto, togliendo a qualcuno e dando ad altri (questo nel breve periodo). Se questo concetto è confermato, non si può sempre essere dalla parte di coloro che ricevono! E’ pur vero che la finanza “dà interesse come montante nel lungo periodo”, ma quanto qui è messo in discussione non è l’investimento come concetto, ma la speculazione quale metodo e sistema.
f) La crisi della finanza, che ha colto gli Usa impreparati, è destinata a colpire tutti con diverse intensità, perché se anche le banche europee non iscrivono in bilancio il valore dell’immobile, ma il nome di colui che ha ricevuto i fondi, resta la speculazione, ovvero il bisogno di lucrare subito e tutto quale elemento scatenante la crisi. In gioco non c’è solo l’immobiliare statunitense, ma un malessere comportamentale che ci vede tutti protagonisti. Basta giocherellare nella speculazione, servono nuovi standard di reale produttività di cose fatte o realizzate.
g) Chi produce è l’industria, non il commercio, non la finanza che rappresentano corollari all’azione di progettare, costruire e vendere. Chissà perché abbiamo così tanto delocalizzato!
h) L’intervento dello stato (vedi impegno UE e dell’amministrazione Bush) non snatura nessun postulato economico. La crisi del 29’fu “grande” perché il prestatore d’ultima istanza, la FED, non introdusse liquidità sul mercato all’atto del crack, consentendo la trasmissione della crisi dalla borsa all’economia reale. Oggi la BCE non è in grado d’immettere liquidità nel sistema, impedendo che lo possano fare le rispettive banche centrali nazionali, da cui lo stallo che è risolvibile solo a livello d’accordo politico, il che richiede molto tempo e concertazione rispetto i tempi rapidi che sarebbe necessari, se l’iniziativa fosse lasciata nel novero delle politiche bancarie nazionali annullate con l’introduzione della moneta unica.

Conclusioni

A quanto pare la lezione subprime non è stata imparata e capita sulle diverse sponde dell’Atlantico. Adesso però quante altre lezioni serve ricordare per evitare di trovarci tutti poveri come fu l’Argentina del 2001? Sicuramente chiudere le partite aperte della speculazione e tornare alla produzione, intesa come quantità di beni realizzati da immettere sul mercato è un ottimo punto di partenza.

Related posts

Made in China? No I can’t buy it. Prof Carlini

Budweiser American beer e il grande errore

Economia internazionale e le sue 2 anime. Prof Carlini