Un’economia anemica priva di liquidità che non sa a chi rivolgersi.
Economia anemica è la diagnosi. Che si fa?
Scrivere su SIDERWEB queste riflessioni, da quasi 1 anno, mi ha permesso d’assumere il ruolo di Direttore Generale in un’azienda del settore, dalla quale sto osservando e studiando una crisi di liquidità da parte delle imprese, che non ricordo in 25 anni di attività.
Per saperne di più devo prendere i testi di storia dell’economia e portarmi al secondo dopoguerra, per ritrovare una situazione similare.
Di cosa sto parlando? Di una pioggia d’insoluti nell’ordine del 30, ma anche 50 e a volte 60% che comporta delle ricadute bancarie molto difficili e, a sua volta, una crisi di liquidità dell’impresa. Classico caso di economia anemica.
Al di là del cliente che mi ha chiamato direttamente per contribuire alla direzione della sua realtà, un po’ tutti gli altri imprenditori si chiedono: cosa e come fare gestione aziendale in questo momento?
Sistematicamente, quando affronto questi temi, invito ogni impresa a ri-finanziarsi, restituendo all’azienda quanto francamente non le andava tolto, per avvantaggiarsi sul piano personale, specie da parte dell’imprenditore per auto di lusso, case al mare e vacanze. Il concetto di fondo è molto semplice: l’impresa non è di chi l’ha fondata o dirige, ma di tutti coloro che ci lavorano e come tale, sostenerla, significa proteggere un bene comune (che evoluzione rispetto a 40 anni fa, quando il sindacato criminalizzò l’utile aziendale come un furto). Se l’impresa è di tutti, allora c’è un “ok” al taglio dei salari per ogni ordine e grado e quindi al rientro di denaro da parte dei proprietari.
Giustamente a questo ragionamento gli imprenditori rispondono: se gli insoluti di questo mese ammontano a 200mila euro, ce li metto, così farò il prossimo mese che saranno 150mila, ma poi?
Gli interventi di ri-finanziamento che ho curato per qualche impresa, solo negli ultimi 2 mesi, sono nell’ordine del milione abbondante, rientrati sia come aumento di capitale, al 50%, che apporto di liquidità. Ma non basta. Rapidamente è emerso che serve un modo diverso di fare impresa. Ad esempio, gli insoluti sono minori dove c’è una politica commerciale, in presenza di un servizio verso i clienti, che vengono visitati sistematicamente dagli agenti o a cui più semplicemente si telefona e ci si parla. “Educare” il cliente è un passaggio importante in una relazione azienda-fornitori-clienti. Queste parole possono anche essere prese come “chiacchiere da bar” o teoria del genere “tecniche di vendita”, ma chi le applica ha un beneficio.
In fondo si tratta di stilare dei piani settimanali di visita clienti per monitorarli, fidelizzarli, aiutarli e mantenere con loro un contatto continuativo che esprima “cultura d’impresa”; ecco la parola magica. Ogni cosa che si può fare intorno a un’azienda in difficoltà, anche perché tutto il mercato è in crisi, passa solo e attraverso un’idea di impresa già descritta in un piano di marketing, che fissi la politica commerciale, quella degli acquisti, le politiche di vendita, del personale, finanziarie e quindi di strategia. Il concetto è quello di cogliere la crisi come una opportunità per fare pulizia in casa propria e rilanciare un’idea nuova che non sia un maquillage, bensì assuma il ruolo di rifondazione d’impresa. L’adozione di un codice etico, il ri-finanziamento, lo stabilire delle politiche, l’intervento consequenziale delle banche sotto forma di maggiore credito, il ridimensionamento delle paghe (soprattutto dei responsabili), il coltivare un nuovo rapporto con i fornitori e clienti (cenni di customer care) rappresentano tutti spicchi di un quadro complessivo che finora è obiettivamente mancato.
Se questo “pensiero” vale a carattere generale per ogni tipo di azienda, qui ci si sofferma nello specifico su chi produce e commercializza acciaio, che si presenta, in genere, con dei profili d’impresa non sempre adeguati alle necessità, per cui c’è solitamente grande attenzione agli acquisti, agli stock di magazzino, ma scarsa alla gestione del cliente e del fattore umano interno. Se poi si dovesse parlare di strategie, il gap diventa veramente “pesante”. In queste condizioni, se non corrette adeguatamente, basta una crisi di liquidità per mettere in dubbio il futuro dell’impresa.
Ecco cosa significa “osare di più” negli appelli del governatore della Banca d’Italia verso la Confindustria, cercando un nuovo pensiero che avvicini le imprese italiane agli schemi più completi e aggressivi di quelle tedesche e anglosassoni. Ecco in che termini si gioca la sfida e in definitiva l’insoluto.
Un’ultima cosa: va ricordato che cultura significa saper cosa fare, dove andare e come muoversi o perlomeno averne un’idea, un progetto, un punto di vista per la propria azienda a 8, 12, e 18 mesi. Per quanto difficile possa essere pensare il proprio lavoro in prospettiva, anche di mesi, alle aziende italiane e in questo settore, in particolare, manca lo sforzo di progettare su se stesse.
Senza questa “iniziativa” il settore acciaio è destinato a forti ridimensionamenti (non accorpamenti) nel numero degli operatori. E l’economia anemica diventa la nostra persecuzione.