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Un caso aziendale di studio. La dipendente che dirige.

by Giovanni Carlini
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Una caso aziendale: la dipendente abbandonata dalla proprietà che gestisce l’azienda

Un caso aziendale che merita d’essere studiato per farne memoria nel futuro. Questo aspetto fu già tratteggiato in passato, ma ora merita una riflessione più acuta.

Ovviamente i fatti emergono dalla realtà. Vediamo di richiamarne i concetti di base.

Siamo nel nord est, in un’azienda che commercializza metalli, 25 dipendenti, 7 milioni di euro di fatturato (in calo del 17%) sul 2008.

Questa società ha una caratteristica tutta sua: la proprietà, a torto o ragione ha rinunciato, negli ulti anni, a dirigerla. Conseguentemente negli ultimi 8 si è affidata per la direzione d’impresa a un pensionato. Questo soggetto è stato da me allontanato nell’autunno 2009, su mandato della proprietà. I motivo sono riconducibili sia al costo; 170mila euro di consulenza all’anno, sia ad interessi privati del soggetto a scapito dell’azienda.

Liberata l’attività dal peso di una figura costosa e ingombrante si scopre l’inadeguatezza del titolare nella direzione. Vuol dire che oltre a una costante sottrazione di denaro dalle casse e ad un appassionante gioco del solitario sul computer, non c’è altro.

Il figlio è molto impegnato all’estero e così la figlia, oltre alla moglie, ancora in azienda, alcolista, spesso è sdraiata per terra perché non si regge in piedi.

In un contesto del genere, la dipendente amministrativa, lì presente da 22 anni, ha garantito la continuità, pur facendo sempre firmare ogni atto alla Proprietà, la quale “nella facciata” figura ancora attiva.

Di fronte a un eroismo di questo tipo, da parte della dipendente, l’aver perso 150mila euro in un contratto sbagliato sui derivati, viene perdonato e così anche l’aver determinato un peso, tra oneri e interessi bancari, di 400mila euro all’anno (pari al 5% del fatturato) utilizzando “con disinvoltura” la banca a livello di cassa continua per finanziamenti necessari alla mera liquidità aziendale.

Non basta.

A causa di troppe responsabilità, ci sono anche 200.000 euro di nero da onorare a clienti e fornitori compiacenti, ma anche 1 milione di magazzino inesistente anche se conteggiato in bilancio per far quadrare i conti.

Al di là delle ovvie imposte erariali e contributive non versate, ma non c’è da scandalizzarsi, l’azienda svelata in questi termini non è più gestibile quindi necessita almeno di una immissione di liquidità da parte della proprietà.

Quest’ultima, benchè inizialmente disponibile, poi all’atto della liquidazione dell’ultimo bene di famiglia (un appartamento del valore di 1,5 milioni) ci ripensa e si rifiuta di venderlo, chiudendo così ogni ipotesi di ricapitalizzazione.

Conscio che quest’azienda è ormai fallita, mi adopero per trovare compratori o soci di minoranza. La proprietà mi risponde con un delicato “no” da parte del figlio e con un’affermazione molto più colorita dal padre. Anche l’idea che fossero i dipendenti a comprare l’impresa e pagare l’affitto alla proprietà per terminare il mutuo sul capannone, non trova l’accordo di chi vuole solo lo stipendio senza preservare il proprio lavoro, pensione e tfr maturato.

L’ultimo colpo di scena, prima che abbandoni l’azienda, è dell’impiegata amministrativa, che confondendo personale con professionale, spinge per l’assunzione, in qualità di venditore un ex amante, fuggiasco da una denuncia penale per truffa e appropriazione indebita nelle gestione di un’azienda concorrente, ora sul lastrico. Ovviamente questo soggetto è stato quindi aggredito e picchiato da creditori “arrabbiati”, che incappucciati si sono recati nel magazzino dell’impresa. La proprietà commenta: ,,,cose che accadono.

Cosa possiamo imparare da questa vicenda?

a) se c’è un cattivo manager (in questo caso impersonato dal “pensionato”) c’è sempre un humus aziendale che lo ha permesso. In effetti, cacciato via “il cattivo”, si scopre un pessimo amministratore (la signora cresciuta in azienda in 22 anni di lavoro) che ha letteralmente massacrato l’impresa (vedi contratti sbagliati, forte esposizione bancaria, magazzino, gestione del nero). Ovviamente l’amministrativa non è affatto disposta (ma il tempo è comunque scaduto) a rivedere le sue posizioni che anzi desidera consolidare.

b) a fronte di un ambiente che “non funziona”: dipendenti che camminano quasi sopra il corpo ubriaco e sdraiato a terra della ex moglie del proprietario, facendo finta di non vedere per non entrare in alcuna polemica (almeno la alzassero dal pavimento!) non esprimono solo lassismo e passività ma rassegnazione Un atteggiamento di questo tipo priva di energia morale e intellettiva l’impresa. Nel mondo militare si parla di “morale della truppa”, dove per citare un famoso esempio storico, solo 300 spartani tennero testa a 50.000 persiani. Ebbene qui è un deserto di emozioni;

c) l’arroganza della proprietà che non ha capito quando “the party is over” (ma questo in realtà non lo capisce mai nessuno) salvo poi farsi travolgere da un fallimento, che in questo caso è fraudolento;

d) la stupidità nel fidarsi di 1 voce che negli ultimi 22 anni è invecchiata in azienda senza crescerci! Da qui si apre il bisogno di formazione nel far crescere i propri quadri e dirigenti, affinché apportino idee e punti di vista anzichè ritirare solo la paga a fine mese;

e) la confusione tra personale e professionale che squalifica senza appello tutta l’azienda, sia al suo interno che verso i clienti, i quali cambiando fornitore anticipano la fine dell’impresa.

Che non ci si stupisca nel leggere fatti d’ordinario disordine umano e mentale, come quelli qui narrati, perché situazioni di questo genere sono molto diffuse rivelando quanto le imprese, perché siano ristrutturate, richiedono in realtà prima un aiuto sulle persone e poi nelle metodiche di lavoro.

Mai scordarsi il fattore umano! Ecco un caso aziendale studiato nei suoi dettagli.

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