Taccuino americano: la necessità di riunire la vita privata con quella professionale per riscoprire la personalità.
Il Signor Bruno Petrei, imprenditore a capo di un’impresa di successo, la Modulblock, oltre ad essere un attento lettore, è anche uno dei più indulgenti critici dei miei ragionamenti pubblicati. E’ d’obbligo che a lui e a quanti mi consigliano, vada ogni mio profondo riconoscimento mentre pubblico le riflessioni in questo taccuino americano.
Petrei si ostina a chiedermi: perché in ogni analisi qui pubblicata, che puntualmente giunge alla realtà aziendale unisco personale con professionale? La risposta è apparentemente semplice.
Negli ultimi vent’anni, in nome di una forzata semplificazione della vita si è voluto distinguere tra vita privata (dove tutto è permesso e non giudicabile appunto perché collocato nella sfera individuale) e quella pubblico-lavorativa che ancora soggiace ad alcuni standard più o meno condivisi (non sempre)
Con una strategia di questo tipo è stato demolito “l’uomo” (o uoma come a volte si dice, intendendo sia la donna che il genere maschile) che non apporta più un’idea, ma appena una specializzazione. Si tratta ovviamente di una finzione che consente un’illimitata libertà non soggetta ad alcun giudizio morale nel privato e a un dimezzamento del significato della persona limitandola appena al lavoro.
Con questo artifizio cos’è accaduto?
a) un forte incremento delle separazioni coniugali espressione di un’incapacità relazionale, che confonde l’abitudine con la noia (attenzione che la noia è una malattia mentre l’abitudine è un parte consistente della nostra vita) Sinteticamente l’abitudine scalda, la noia uccide;
b) un grande sviluppo della fantasia non creativa. Quando poi ci si accorge di non aver inventato nulla o di non incarnare quel personaggio che si sente d’essere, ma che non corrisponde a quanto siamo, scatta l’ansia (gli psicologi la chiamano dissonanza cognitiva) che preannuncia la depressione o comunque una rabbia endemica, costante, quotidiana di chi non è mai contento ed è perennemente litigioso e nervoso;
c) lo spezzettamento della personalità ha comunque rappresentato un grande incremento di produttività, ma non indotto da maggiore passione e precisione bensì dal costante intervento dei sistemi informatici applicati all’impegno personale.
Il risultato è che basta una crisi per “sfasciare tutto”.
Va precisato che le crisi nella vita personale e professionale sono come i temporali in meteorologia. Non è possibile considerare una sciagura un bell’acquazzone! Ebbene rispetto al 1929 ad esempio, oggi la capacità di sopportazione e reazione è estremamente ridotta, perché spezzati in un privato non giudicabile (chi sei tu per dirmi cosa essere e fare) e un professionale, che gioca a darci immagini socialmente rilevanti in un esibizionismo funzionale alla moda.
Mi scuso se sono stato troppo sociologo in questa puntata del taccuino americano ma simili concetti vanno approfonditi, pena il non riuscire più a capire il nesso tra la politica del personale e la produttività in azienda.
Gestire il personale non vuol dire fare qualche corsetto d’aggiornamento qua e là, quindi la gita e una mangiata in trattoria a spese del titolare. In realtà il responsabile del personale deve aver molto chiaro il quadro sociale complessivo, perché così può concorrere a determinare in azienda un ambiente umano, che risponda al bisogno di un numero preciso di quelle persone anzichè altre.
Mi spiego. Le necessità dell’impresa xy, sono diverse da quelle di abc, anche se geograficamente collocate una a fianco all’altra. Sbagliare la politica del personale adottando, per esempio, schemi comportamentali identici tra le due imprese, vuol dire pagare l’errore in termini di minore produttività (maggiore tempo nel fare qualcosa, più conflittualità e litigio etc..)
Per poter tagliare su misura un modo di relazionare con le persone dipendenti, serve cucire istanze diverse che spazino tra il privato e il lavoro, capendo chi sono queste persone, cosa cercano, perché possono essere incompatibili o al contrario coordinabili, perché mentono (a se stesse o agli altri?) e cosa vorrebbero ma non sanno chiedere. Dall’altra parte è importante non tanto conoscere il punto di pareggio aziendale, quanto quello d’ogni dipendente misurabile attraverso l’organigramma e il mansionario.
Anche qui si apre un grande ragionamento. L’organigramma non inquadra numeri di matricole ma persone, che per rendere hanno un carattere da utilizzare senza il quale non producono. Se questo è vero, saper leggere negli occhi delle “uome”, quanto non detto, ma espresso a livello di bisogno, da conciliare con la produttività d’impresa, è la base della funzione del personale. Azione d’impresa che si caratterizza per il compito di riunire vite spezzate tra un privato vuoto (mancanza di idee e cultura, capacità di leggere e capire, tollerare e capitalizzare le esperienze fatte anziché solo consumarle) e un professionale che in questi decenni non abbiamo assimilato. Noi tolleriamo e sopportiamo il lavoro, senza considerarlo una parte espressiva di noi stessi. Serve invece una politica in azienda che aiuti a ricomporre quanto è stato spezzato, altrimenti non ha senso parlare di produttività, export, mercati etc..
Urge un direttore del personale che si paghi lo stipendio con quote di produttività maggiori rispetto al “fai da te” d’impresa e persone che s’interroghino, sulla capacità di educare-educarsi ai molteplici ruoli che la vita richiede, nel suo scorrere. Chi non ama non lavora bene, ma soprattutto chi non si evolve e non educa il partner ai ruoli diversi della vita, resta un arrabbiato che si somma a una folla solitaria. Massa, società, persone, azienda, produttività, bisogno d’amore, ecco come il cerchio si completa.
Ecco i pensieri che si trovano in un taccuino americano attraversando deserto e metropoli.
Buon lavoro.
Seguono immagini tratte dal taccuino americano.