Sociologia silenziosa: il noto caso della teoria chiamata Il prigioniero da Parkinson
Sociologia silenziosa vuol dire non dare volutamente importanza ad altre teorie salvaguardando il proprio giardinetto. In pratica tutto si chiude con una frase del tipo: l’importante è la salute! Questa frase, particolarmente condivisibile, non è più vera.
Il mondo scientifico e anche i malati non accettano spunti, idee e consigli che non pervengano esattamente dall’interlocutore abituale, indipendentemente dalla bontà del messaggio. Si conferma come il malato sia di fatto un prigioniero. A questa limitazione contribuisce il mondo sanitario, monopolizzando ogni opportunità, il che inibisce la formazione di una solida massa d’idee ed esperienze che dovrebbe trovare posto nella sociologia del dolore; una materia che ancora non esiste, ma se ne sente la necessità da migliaia di anni.
Il prigioniero da Parkinson si costruisce la sua trappola
Sociologia silenziosa. Questo studio nasce da due diverse esperienze maturate recentemente.
La prima si concentra sull’osservazione del comportamento dei malati di Parkinson in Italia e dalla loro generalizzata ostilità verso qualsiasi novità per migliorare la qualità della vita, che non provenga esattamente dal mondo medico-sanitario.
La seconda dall’atteggiamento delle varie facoltà di sociologia statunitensi (ne sono state intervistate 83). Entrambi gli aspetti, non collegati tra di loro, sono comunque in correlazione, producendo un’importante arretratezza nella gestione del benessere del malato, da parte dell’intera struttura assistenziale, ospedaliera e familiare. Si configura così una trappola, nella quale il malato si chiude, convivendo nella malattia, identificandosi nelle condizioni già studiate e note come “sindrome da Stoccolma”.
Partendo da queste considerazioni di base e unite alle esperienze vissute quanto sofferte dal Prof. Milton, nel passaggio da malato (soggetto a cura standard) a paziente (soggetto a una cura specifica e personalizzata) il quadro si amplia. Riusciamo, in questo modo, ad avvalerci degli studi nel trattamento riabilitativo dei prigionieri americani rientrati in Patria dal Vietnam, e infine da considerazioni emergenti dalle tecniche di programmazione neuro linguistica, (PNL). Solo con questi apporti “multidisciplinari” si definisce la teoria sociologia al Parkinson, meglio nota nel mondo come Il Prigioniero da Parkinson.
In questo contesto si riscontra sia l’ostilità dei malati di Parkinson (prigionieri) che non riconoscono nel sociologo un interlocutore, che la disarmante risposta delle più facoltà di sociologia americane, non interessate ad aprire un filone di ricerca e studio sulla sociologia del dolore. Praticamente sarebbe a dire che se esiste la sociologia del lavoro, come della famiglia, della devianza, della sessualità (l’ultima nata) militare, economica, di genere e di riproduzione, compresa quella sanitaria, il dolore non è riconosciuto, al momento, come un evento modificativo del comportamento umano.
Cercando di spiegare meglio, ogni insegnamento sociologico dovrebbe descrive un particolare fatto sociale con indubbie ricadute sul comportamento delle persone nella comunità. Al momento, non pare che il dolore non sia tra questi, ovvero un evento in grado di cambiare la relazione umana. Ecco perché si discute apertamente si sociologia silenziosa come atto d’accusa.
Quel che è peggio è che dalle università escono sia dai corsi di medicina che di sociologia, psicologia e studi para sanitari, studenti che non hanno introdotto nelle loro sensibilità di studiosi e operatori sanitari, “il dolore” nei termini di evento sociale modificativo della relazione sociale. Quest’analisi, applicata al mondo universitario degli Stati Uniti, trae comunque origine dallo studio dell’atteggiamento tipico del malato di Parkinson studiato in Italia, un personaggio che spesso si chiude in se stesso, sia per la vergogna che per l’astio che soffre e prova verso gli altri subendo quella che è percepita come “un’ingiusta condanna a vita”. Questo prigioniero di se stesso e della malattia, non sa educare il partner e la famiglia ai suoi nuovi bisogni, fratturando gli affetti. Sistematicamente, in ogni caso studiato, il prigioniero da Parkinson, soffre d’insoddisfazioni per mancati comportamenti adottati dal partner o dai familiari che “non capiscono” senza con questo essere stati educati dal prigioniero da Parkinson ai suoi nuovi bisogni e questo per vergogna e rabbia appunto sociologia silenziosa.
Ecco che uno degli epicentri della qualità di vita del prigioniero da Parkinson non è più dentro di sé nell’accettare e convivere con la malattia (terreno tipicamente gestito dalla psicologia) oppure nella lotta al morbo (cui risponde la medicina) ma nella reazione “militarizzata”, forte di una disciplina della risposta, che il prigioniero dovrebbe attuare, smettendo di vergognarsi per passare a una fase attiva e sociale intera come relazione con il coniuge, la famiglia, gli amici e l’ambiente. Ecco che a questo punto serve un complesso di suggerimenti che costituiscono la sociologia del dolore. L’assenza di un ordinato studio del dolore, al fine di migliorare la qualità di vita quotidiana, dei malati di Parkinson, li imprigiona ancor di più lasciandoli senza speranza nel carcere della malattia. Chi tra queste persone, seguendo quelle personali attitudini, appositamente valorizzate, (il carisma) si pone in forma di contrapposizione al male, reagendo in forme disciplinate e costanti (militarizzazione della reazione) godendo della presenza virtuale e fisica di altri (anch’essi colpiti dal male come persone ancora sane) è ancora capace d’entrare nel merito della risposta fisica contro la malattia, attraverso una massiccia reazione emotiva (vedi anche la sociologia della sessualità) riesce a transitare dal solo essere malato (la maggioranza) allo stadio evoluto del prigioniero da Parkinson.
Dove si applica la sociologia del dolore
La malattia è uno stato d’alterazione della sanità di una persona. Finchè si tratta di un breve momento che potrebbe anche durare uno o due mesi, non si può dire che il comportamento del paziente si modifichi in forme importanti.
Al contrario, quando la patologia diventa cronica o di lunga durata, come addirittura capace di cogliere la restante parte della vita (è il caso del Parkinson) il comportamento del prigioniero, della famiglia, del lavoro e tutto il resto, subiscono un’importante modificazione radicale, generalmente in senso negativo sopratutto se osservato dal punto di vista del paziente (nervosismo, disperazione, distacco, vergogna, isolamento, invidia, acidità verso “i sani”: in pratica un anticipo di morte sociale). Con queste considerazioni emergono 3 aspetti clinici per studiare la stessa malattia di lunga durata che sono:
- quello medico, prettamente fisico che è ovviamente il più importante e immediato;
- quello psicologico che dovrebbe insegnare al singolo prigioniero (malato) a convivere con la sua malattia;
- quello sociologico che studia l’interazione tra prigioniero e la famiglia, quindi il lavoro e il suo ambiente sociale gli altri puntando direttamente alla qualità di vita, considerando la relazione sociale come un passaggio insostituibile della riabilitazione nervosa del prigioniero da Parkinson.
Ebbene, questo tipo di prigioniero si conferma ancora tale, vittima di se stesso, nel momento in cui scatena una gratuita quanto singolare ostilità verso una nuova figura, il sociologo, impegnata nel migliorarne la vita nei rapporti familiari come lavorativi. Questa ostilità in realtà, più che essere un parto originale del malato, deriva dalla considerazione della sociologia, nel mondo della scienza, come materia “povera” rispetto alla psicologia e anche dal suo inserimento negli organici universitari in termini di “scienza delle libere arti”.
Al di là della sottostima della sociologia per il benessere delle persone malate, che potrebbe anche rimanere un discorso accademico, desta grande sorpresa come siano gli stessi malati a discriminare la fonte delle novità che ricevono. Detto meglio, il malato è disinteressato alla novità (rivelandosi così estremamente conservatore, come del resto i bimbi piccoli) se perviene dal tradizionale interlocutore (la medicina) indipendentemente dalla bontà o meno del messaggio. E’ questo il caso delle intossicazioni da farmaci!
Al malato non interessa la bontà del messaggio o l’annessa sperimentazione, solo l’autorevolezza della fonte. E’ già accaduto osservare come il sofferente da Parkinson sia molto interessato al curriculum del ricercatore, anziché alla proposta, per quanto possa essere semplice e diretta nell’applicazione. Ecco come il paziente, chiudendosi da ogni prospettiva, vuole restare prigioniero di se stesso e della sua malattia senza possibilità d’evadere. Infatti per evadere serve essere prigionieri.
Quanto sino ad ora studiato sui malati di Parkinson in Italia e su qualche prigioniero che sta reagendo al male, s’inquadra nella civiltà e dignità umana, che tutti noi dobbiamo verso chi soffre. Ecco che l’istituzione di un corso di studi e ricerca sulla sociologia del dolore, nelle facoltà di medicina e sociologia, non serve solo a rendere più attuale la materia di sociologia al servizio dell’uomo, ma coglie un bisogno essenziale della persona: la civiltà.