Riflessioni che emergono dalla lettura di Richard Sennett
Un’altra osservazione interessante di Richard Sennett, che cambia la sociologia moderna e contemporanea in senso evolutivo, è come il ceto medio occidentale (l’autore si riferisce a quello statunitense) accetti con rassegnazione i cambiamenti strutturali dell’economia moderna. Ci si trova di fronte a un soggetto passivo, la classe media occidentale, che giustifica anche il mancato (per ora) contraccolpo sulle istituzioni moderne, derivanti da importanti quote di disoccupazione sofferte da anni e precisamente dal 2008 in Europa e dal 2007 negli Usa. Hitler giunse alla Cancelleria a Berlino nel 1933 con molti argomenti ma sicuramente sfruttando un 30% di disoccupazione. Oggi in Italia, le persone senza lavoro sono “solo”il 13% della capacità lavorativa nazionale, con una punta del 44,5% per i giovani, il cui malessere è assorbito dalle famiglie, costrette a ridurre la ricchezza accumulata nel passato. Per quanto tempo ancora potrà funzionare questo meccanismo di sofferenza sociale, senza che si metta in discussione la stessa democrazia, quale forma di governo, se non in grado di produrre benessere?
La sociologia moderna e contemporanea ancora non si è svegliata su questi temi, restando confinata nel solo censimento del fenomeno.
Richard Sennett, in effetti, cerca di spingersi oltre il solo disagio moderno e in questo si affianca al più importante pensatore e sociologo moderno attuale: Zygmunt Bauman. Resta il fatto però che la sociologia moderna e contemporanea non ha ancora saputo formulare un’idea adeguata per gestire la crisi e cercare alternative. Si potrebbe obiettare che non è compito della sociologia moderna e contemporanea pensare al futuro, ma solo spiegare il presente, lasciando ai filosofi il loro lavoro, ma nel guado tra chi deve fare cosa, resta una solitudine esistenziale profonda. Bauman denuncia il vuoto e Sennett ne spiega le articolazioni sociologiche in ambito lavorativo, ma non andiamo oltre. Non esistono allo stato, sia nella sociologia moderna e contemporanea che in politologia o psicologia, studi in grado di spiegare quando la democrazia “si rompe”, sotto il peso di un eccesso di disagio sociale e disoccupazione. In pratica una sorta di test da sforzo della democrazia come forma di governo.
La comprensione dei comportamenti sociali e collettivi non è forse ambito di ricerca della sociologia moderna e contemporanea?
La ricerca prosegue e la lettura dei grandi pensatori di questo tempo si fa più intensa, rendendosi conto però che non sono azioni sufficienti e che vanno immediatamente integrate con altri studiosi (Catherine Hakim, John Carlins etc..) che anch’essi apportano un solo particolare alla sociologia moderna e contemporanea ma mai il quadro d’insieme. Negli anni Cinquanta e Sessanta, la sociologia ebbe ancora un ultimo tentativo per una “teoria generale”, che oggi sarebbe impensabile. Però sorge la domanda, perché?
Perché nella sociologia moderna e contemporanea non è possibile cercare chiavi di lettura e gestione dei drammi attuali, in un quadro di “Teoria generale”?
Probabilmente non ci sono studiosi adeguati o un eccesso di gelosie, per poter immaginare un unico tavolo di riflessione al fine di rilanciare un pensiero che sappia andare oltre la sociologia moderna e contemporanea per coinvolgere la psicologia, filosofia, scienza politica, demografia e statistica, identificando pensieri pratici come ad esempio l’uso delle politiche di reshoring per attenuare gli errori della globalizzazione e delocalizzazione già commessi. Eppure non è difficile!