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Rapporto Stampi di Marzo scritto anni fa. Prof Carlini

by Giovanni Carlini
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Ci sono delle novità nell’industria degli stampi

di Giovanni Carlini

Le attuali condizioni di mercato

Come evidenziano i grafici che emergono dalla rituale indagine di mercato dell’Associazione di categoria UCISAP, solo il “profitto” ha un deciso segno positivo nel confronto tra marzo e febbraio, a parte un simbolico +2% dei “prezzi di vendita”. Il mese scorso in campo positivo si registrano solo gli ordini, ma si ipotizzò si trattasse di un effetto di trascinamento dal precedente anno. Infatti aggiornando la ricerca con i dati di marzo, si conferma quell’analisi osservando come oggi quegli ordini di un mese fa al +16% sono precipitati in un “abissale” calo al 46,5% Si può vivere con pochi ordini e fatturato in calo? Non per molto, ma sufficiente sia per avviare un processo d’innovazione e sviluppo con internazionalizzazione.

Le prospettive a sei mesi

Raramente si può osservare una condizione come all’unisono tutte le voci d’indagine siano allineate in negativo; che pessimismo! (comunque condivisibile) Considerato che “la pensiamo tutti allo stesso modo”, nel senso che recepiamo i prossimi 6 mesi come “difficili”, da qui partono i distinguo. Si è già detto che solo la ricerca e sviluppo con internazionalizzazione, garantisco la sopravvivenza alle imprese di stampi italiane. Peccato che quasi nessuno si sia avvantaggiato del “credito d’imposta per la ricerca e l’internazionalizzazione” che consente, a costo zero (recuperando da tasse pagate in meno) azioni di questo tipo. Preoccupa un altro aspetto. Se il mese scorso la voce “investimenti” indicava “zero” garantendo il futuro, adesso ripiega con crudeltà a un -48% il che potrebbe essere tradotto come una resa agli eventi da parte dei nostri capitani d’industria.

Studiando i dati di marzo dell’Ucisap

I dati complessivi e incrociati che emergono dalla ricerca sono inesorabili nella loro crudezza. A questo punto non resta che reagire o perire. La reazione è stata già indicato in che direzione deve muoversi: investimenti, ricerca e sviluppo con internazionalizzazione.
Per ognuna di queste voci ci sono diversi progetti di finanziamento, spesso del tutto gratuiti per le PMI, ma nonostante ciò l’accesso a questi strumenti resta episodico. Si tratta di un fatto “curioso” che denota quanto miope sia la visuale dei nostri imprenditori, che hanno un disperato bisogno di farsi accompagnare da consulenti specialisti di settore, altrimenti restano soli. Su questo l’Associazione potrebbe svolgere un ruolo guida, prendendo direttamente contatto, ad esempio, con quei consorzi che immediatamente rendono effettive e applicabili le norme sul credito d’imposta allo sviluppo e internazionalizzazione in scadenza a fine anno e spendibili da tasse pagate in meno.
Non solo, è di questi giorni la disponibilità, da parte delle nostre banche, di sostenere l’internazionalizzazione delle PMI italiane con 40 miliardi di euro entro il 2015. Tutto ciò a costante sottolineatura del concetto che con il solo mercato domestico le nostre aziende chiudono.
Studiando il carico di lavoro in settimane, si assiste a tendenze opposte e speculari tra piccoli operatori e i grandi. Dove il carico cresce dal 6,5 di febbraio a 7,5 di marzo, si osserva una pari discesa nei grandi stampisti italiani disegnando un percorso che da 7,5 settimane di lavoro scende a 6. Per quanto concerne la plastica, le linee di tendenze sono ancora una volta opposte, a beneficio, questa volta dei grandi operatori che passano da 6 a 12 settimane di carico di lavoro assicurato.

Cosa sta accadendo; nuovi sviluppi

La Redazione di STAMPI si è recata recentemente negli USA per cercare di comprendere le nuove tendenze, quelle a carattere macroeconomico in grado di cambiarci la vita. Ebbene in ambito di espansione industriale, apparirà un controsenso ma in quel contesto, anche per ragioni elettorali, ci si interroga sullo sviluppo (concetto accantonato in Italia) Ovvero cosa fare per assorbire 14 milioni di disoccupati e rilanciare la produzione di ricchezza per la Nazione? L’attenzione è caduta su una profonda revisione dei processi di delocalizzazione dati per scontati fino ad ora.
In particolare dal 2000 ad oggi, il processo di delocalizzazione è stato interpretato in due forme diverse:
a) all’inizio (dal 2000 al 2008) servì per ovviare al costo del personale, aprendo stabilimenti in paesi emergenti da cui reimportare le merci prodotte in Patria;
b) la seconda forma di delocalizzazione (dal 2008 ad oggi) è principalmente votata al presidio di un mercato specifico, realizzando in quel contesto e solo per quello beni e servizi, vendendo la necessaria tecnologia e addestrando il personale locale.
Attualmente è in essere una forte contestazione verso la prima forma di delocalizzazione, considerata un furto di ricchezza alla Nazione concretizzato in posti in meno di lavoro, da cui si chiede una maggiore tassazione per quelle imprese riequilibrando il danno prodotto.
Fin qui la concettualizzazione di un fatto che ha cambiato la nostra vita, dove abbiamo tutti ritenuto irreversibile che l’industria manifatturiera emigrasse dall’Occidente verso paesi terzi.
Poche sono state le voci di studiosi che si sono opposte a questo dissanguamento e derise sia dal mondo politico che economico. Adesso però, da metà marzo, emergono dei dati che per la prima volta confermano tutto il contrario. Il Boston Consulting Group ha pubblicato uno studio (Made in America, again) dove si regista un rientro d’aziende americane prima delocalizzate, causato da diversi fattori tra cui:

a) un importante rialzo del costo della manodopera;

b) presenza d’incentivi per favorire il ritorno delle industrie in Patria;

c) un’ossessiva presenza del Governo, sia indiano che cinese come brasiliano, in ogni ramo d’attività, piegando e distorcendo le finalità economiche a quelle politiche;

d) la scoperta che il mercato interno dei paesi emergenti, ha senso solo per alcuni articoli (fertilizzanti e trattori ma molto meno l’informatica);

e) forti spese di trasporto se si dovessero re-importare i prodotti in Patria;

f) un oggettivo rischio Paese come la prospettiva di collasso sociale per la Cina;

g) una generalizzata povertà nei Paesi in via di sviluppo, che non giustifica un apparato industriale imponente e la riscoperta dell’importanza dell’ambiente sociale, giuridico e politico nel quale si vive e produce (incertezza del diritto in Brasile, Russia, India e Cina, presenza di dazi in Brasile e altro) che favorisce senza confronti l’Occidente.
Questi aspetti, hanno comportato un rallentamento delle attuali delocalizzazioni in discesa dal 10 al 2% e un contemporaneo re-ingresso di aziende, precedentemente schierate nei paesi “bric” che accelera al 20%.
In termini di valore, se ogni anno negli USA s’importano 1.000 miliardi di dollari (causando una forte disoccupazione) da produzioni manifatturiere delocalizzate, adesso il re-shoring, interessa appena 50 miliardi di dollari. Un valore così esiguo non permette d’andare oltre che registrare una tendenza contraria all’abitudinario, che inizia ad avvalorare quelle tesi già discusse, ma prive di numeri. E’ in corso un cambio di cultura produttiva? Forse più che a un’inversione si pensa a un rientro da eccessi.

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