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Quel silenzio che uccide: il caso ILVA. Prof Carlini studi

by Giovanni Carlini
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Quel silenzio che uccide prendendo spunto dalla vicenda ILVA

Quel silenzio. Pensando a diverse e importanti famiglie industriali del mondo siderurgico come in altri settori, emerge una contraddizione: la capacità di comunicazione è limitata quanto grande e prestigiosa ne è la storia.

È un controsenso!

Leggendo avidamente sui quotidiani del dramma dell’ ILVA emergono sempre le accuse della procura, ma le risposte della dirigenza dove sono? È vero che il processo si svolge nell’aula di giustizia nei tempi e modi del diritto, ma esiste anche un’immagine, una storia, un’importanza, uno stile da confermare attraverso risposte, idee, punti di vista, scenari e conferme.

La prima cosa che penso, guardando non solo all’ ILVA, sono 20mila stipendi che mese per mese, negli anni, hanno arricchito l’Italia. Come cittadino e italiano non posso che esserne riconoscente, soprattutto se questo benessere è stato collocato nel Mezzogiorno d’Italia, tradizionalmente più povero rispetto al resto del Paese. Saranno anche parole “vuote” ma non di circostanza. Un monumento al capo della famiglia Riva nella piazza centrale di Taranto (come spesso ho visto negli USA attraversando molti paesi nella prateria) rappresenterebbe un giusto tributo di riconoscenza.

Nel corso dello sviluppo sono state fatte male delle cose? È ovvio! Non si riesce a immaginare nulla che, osservato a posteriori, non sia criticabile. Ecco dove la comunicazione è necessaria, comunque e in ogni caso, anche in quegli aspetti apparentemente indifendibili!

Spiegare l’umana debolezza produce simpatia e condivisione. Probabilmente le risposte nella realtà saranno diverse, ma almeno spunta un contradditorio che conduce a un solo aspetto: l’importanza del lavoro e dell’azienda nel nostro paese con tutti i suoi contro e pro.

Io sono un patriota quindi sensibile a quel silenzio assordante.

Cosa vuol dire? Significa che considerando i diversi aspetti del problema, non ultima la salute e sicurezza di chi lavora e vive intorno agli stabilimenti che ha diritto a una vita dignitosa, desidero che i confronti si spostino su un piano costruttivo e non distruttivo. Cerco una formula di convivenza civile tra industria e popolazione, pur conoscendo la criticità dell’urbanizzazione industriale nei centri abitati.

Il lavoro “è una grazia di Dio” che serve per vivere.

Lasciamo perdere cosa sia più importante tra salute e busta paga, ma puntiamo alla qualità e indispensabilità d’entrambi.

Se questo è vero serve una nuova stagione industriale in Italia (lo dicono tutti) ma ci si scontra poi nel “silenzio parlato” degli stessi imprenditori.

Ho osservato fior d’imprenditori con una storia magnifica e un grande successo da gestire che messi di fronte a degli interlocutori, anche abituali, non riescono ad esprimersi in forme che superino il monologo. Al contrario apprezzerei chi sa organizzarsi un incontro intorno a un tema, nel dettaglio:
a) incontri brevi intorno a un argomento precedentemente anticipato ai partecipanti affinché si preparino per intervenire;
b) esposizione per punti procedendo con una introduzione (uno o al massimo due minuti) quindi i diversi passaggi (in questa seconda fase preferibilmente non più di 3-4 minuti);
c) per singolo passaggio o immediatamente al termine dei 6 minuti iniziali, chiedere il punto di vista a un collaboratore scelto a caso;
d) da questa iniziale risposta collegarsi per eventuali approfondimenti utilizzando altri 5 minuti, quindi ripetere i diversi passaggi. In tutto chiudere l’incontro nello spazio di 40-45 minuti al massimo è saggio.

Questa è tecnica di comunicazione nelle relazioni interne. Lo studio qui proposto si rivolge però a quella istituzionale fatta d’idee riconducibili ai grandi valori.

Non va mai detto “secondo me”, oppure “noi crediamo” eccetera..

Al contrario è interesse del Paese, la Nazione richiede, i livelli di ricchezza necessitano, la crisi impone, ma noi riusciamo e possiamo eccetera.

La comunicazione istituzionale deve avere un ampio respiro sulla Nazione confermando dei grandi principi nei quali l’azienda, nel giusto o sbagliato, ha lottato in ogni caso pur in risposta a gravi anomalie, cui rendere il conto in nome della civiltà. Ecco la parola finale con cui chiudere questa riflessione: civiltà contro quel silenzio.

Civiltà dell’industria in una società che non ne può fare a meno, per mantenere i suoi standard di qualità e vizio.

Nel concetto di civiltà sono anche inclusi quegli imprevisti, che comunque vanno gestiti, nel superiore interesse dell’azienda, delle persone che ci lavorano e della Nazione. Non accetto quel silenzio.

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