Home MARKETINGGlobalizzazione Per quanto tempo possiamo resistere così senza una revisione del sistema

Per quanto tempo possiamo resistere così senza una revisione del sistema

by Giovanni Carlini
0 comments

Per quanto tempo possiamo resistere così? Di Giovanni Carlini – sociologo ed economista

Per quanto tempo possiamo resistere in queste condizioni? E’ la domanda sulla bocca di tutti ma non ci sono soluzioni. Ancora non abbiamo vie d’uscita! E’ stata aperta una serie di 3 puntate, in questa rubrica, dedicata a chi dirige le imprese. Lo scopo è aiutare nel trovare nuovi spunti, evitando la chiusura (per disperazione) o peggio il fallimento.

Per quanto tempo possiamo resistere così? Se continua così chiudiamo tutti. E’ la frase che più spesso si sente intervistando i diversi operatori. L’accento è posto essenzialmente sulla quantità di credito inesigibile o scaduto quindi insoluto.

Per fare un paragone la finanza, per il sistema delle imprese, assolve le stesse funzioni assolte dal sistema sanguigno in un corpo umano. Senza sangue o con poca pressione nelle vene si muore. E’ quanto sta accadendo al sistema economico italiano e occidentale in genere. E’ anche l’oggetto del “braccio di ferro” tra il Ministro delle Finanze e il sistema bancario.

Forse la partita in gioco, non è soltanto erogare liquidità alle aziende, ma la stessa stabilità del sistema bancario. La sensazione è che gli istituti di credito italiani a rischio chiusura siano parecchi. Cosa fare?

A livello di singola impresa esiste una dignitosa scappatoia. Il ri-finanziamento dell’aziende con mezzi propri sotto forma d’aumento di capitale.

Sotto un punto di vista “macroeconomico” la soluzione consiste nella sottoscrizione in massa dei titoli di stato come “massa di liquidità”. Uno strategemma che alza il prezzo del debito pubblico italiano comprimendone gli interessi da pagare. Fin quanto questo trucco potrà funzionare?

Qualcosa che provoca dolore

Come noto la Cina ha invaso il mercato occidentale dell’acciaio con tanti prodotti tra cui anche i cuscinetti a sfere, cilindri e aghi in acciaio. Nel 2008 le sole importazioni in Italia raggiunsero i 723,9 milioni di euro contro i 370,9 dell’anno precedente. Il ritmo non è diminuito ancor oggi nel 2017.

Il sorprendente è che spesso, chi riceve prodotti cinesi deve cestinarli perché difettosi. Nel “mucchio”, considerando il basso prezzo di acquisto, le perdite per non conformità sono compensate. I guai sono poi dover rispondere nelle inchieste giudiziarie, quando i lavori non sono stati fatti con materiale adeguato. Un fatto che si sta diffondendo con grande velocità.

In termini di prezzo, la Cina riesce ad invadere il mercato occidentale applicando prezzi di un terzo di quelli praticati.

Oltre al fatto che i cinesi lavorano in spregio a tutte le regole di sicurezza e qualità del lavoro e dignità, un dato oggettivo a favore c’è; il costo dell’energia. In Italia l’energia incide per più del 30% del costo finale. Esclusa l’Irlanda, il nostro paese è quello dove l’energia è la più cara in Europa. In questo quadro è maturata la chiusura di un’impresa italiana: la Bbsfere.

La Bbsfere aveva 62 anni d’attività. Nata nel 1947 a Besana Brianza si è poi spostata a Carate (Varese). Guidata verso la sua fine dai fratelli Bonacina. Con 63 addetti, la sua specializzazione era realizzare sfere da 1,5 a 200 millimetri di diametro. Questo lavorando 20 tonnellate d’acciaio al giorno con un export al 20%.

Le difficoltà sono iniziate nel 2002 quando la Cina invase la fascia bassa del mercato.

Sarebbe stato possibile per i fratelli Bonacina chiudersi nella nicchia delle sfere di alta-altissima qualità o degli acciai speciali. La similitudine è con gli acciai utilizzati dalla Ferrero per macinare il cacao. Putroppo però il giro d’affari per la famiglia Bonacina sarebbe stato troppo piccolo per com’è strutturata la Bbsfere. Peccato.

Cosa imparare da questa “brutta storia”? Forse è saggio un antico e vecchio rimedio: il protezionismo contro la Cina.

Dai libri di economia si trae l’idea negativa del protezionismo perché “addomestica e addormenta” la creatività di una nazione. la conseguenza della “protezione” sarebbe una riduzione di tensione al meglio. In effetti il concetto è vero, ma lo è nella misura in cui l’apparato produttivo nazionale sia “pigro”, non quando è soggetto al rispetto delle regole di qualità e dignità del lavoro.

Laddove “graviamo” il sistema industriale occidentale di regole per il rispetto dell’ambiente sconosciute in Cina, il protezionismo ristabilisce l’equilibrio.

E’ il ragionamento applicato recentemente negli USA di Donald Trump. L’amministrazione ha iniziato ad alzare uno scudo protettivo al “made in USA” contro l’invadenza cinese. L’ironia della sorte vuole che siano proprio imprese americane delocalizzate a subire i dazi imposti dal Congresso. Ciò spiega come anche la delocalizzazione sia un fenomeno da rivedere in pieno.

Le nuove tendenze sono per spostare le produzioni solo se finalizzate a presidiare quel certo mercato. Non certamente per re-importare merci e prodotti realizzati all’estero nel mercato nazionale solo per lucrare sul costo della mano d’opera!

Ecco scoperti gli ambiti attraverso i quali si scopre per quanto tempo possiamo resistere così.

You may also like