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Parkinson in pericolo. Studi Prof Carlini

by Giovanni Carlini
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Parkinson in pericolo significa che, in Italia in particolare, non è facile o possibile un dialogo costruttivo a favore della comunità;

Il Parkinson è una malattia pericolosa perchè imprigiona persone sane in un corpo malato (almeno nei primi anni, poi avviene il contagio tra corpo e anima e a quel punto non c’è più un prigioniero ma il silenzio del dolore). Ne consegue che stiamo trattando un argomento tra i più difficili ma lo è ancor di più per il comportamento sia della scienza che dei malati: entrambi, entrando in sinergia, riescono a scatenare una miscela di negatività come non mai. Mi spiego.

La medicina, in tutto il mondo ma in Italia in particolare, almeno nel campo del Parkinson, è molto “protettiva” escludendo altri approcci come la sociologia ad esempio, mentre viene tollerata la psicologia. In pratica la malattia diventa, in questo modo, con tale chiusura, una rendita.

I malati, dal loro punto di vista, non sono reattivi, come dovrebbero essere, cercando novità e “vie di fuga dalla trappola-prigione” (per quanto poche ce ne possano essere) restando ancora più prigionieri di se stessi, della malattia e della sofferenza. In pratica abbiamo, nel Parkinson italiano delle “scatole cinesi” di prigionia che si sommano alla drammaticità della patologia. Cerco di spiegarmi meglio. In un totale e completo disastro umano, qual’è il Parkinson, per cui la sofferenza “la si può tagliare a fettine per quanta ce ne sia” il lancio di una Teoria sociologica come il PRIGIONIERO DA PARKINSON (nota nel mondo nei termini di THE PRISONER OF PARKINSON) non è considerata come un’opzione, ma un fastidio. La medicina non vuole concorrenza o sinergia. I malati non vogliono reagire, ma essere compatiti. Da questa miscela dove l’uno blocca l’altro emerge il silenzio e l’apatia.

La conclusione è che quando discuto di Parkinson con diversi editori questi affermano: in Italia non ci sono le condizioni minime per aprire un dibattito meglio emigrare

Ecco la conclusione: manca il dibattito a meno che non sia quello celebrativo della medicina dove ci si ringrazia l’uno con l’altro. In queste condizioni, ovviamente, ne fanno le spese i malati ,che non reagendo entrano in un avvitamento dal quale non escono più. E’ possibile reagire per sentirsi ed essere, sebbene malati, delle persone vive e rigogliose? certo! basta solo volerlo. Attualmente l’unico vero “riscatto” che si nota nei malati di Parkinson è il nervosismo, la rabbia, l’astio che non è più sofferenza ma invidia: perchè è toccato a me e non a te? Parafrasando il concetto, resta più o meno inquadrato in una domanda del genere pur senza risposta. 

Invece, applicando ad esempio le normali prassi di riabilitazione dei soldati mutilati che tornano dalle aree di battaglia, la condizione del rimpianto muta in accettazione e voglia di vivere. Certamente non è confrontabile un ventenne mutilato che ha tutta la vita di fronte a se con una donna o un uomo 50enne avendo quest’ultimo una parte di vita più difficile da vivere nella malattia. Però, oggettivamente siamo certi che l’uno non sia meglio/peggio dell’altro? Certamente ad entrambi manca qualcosa d’importante. 

Concludendo, nel dramma è possibile vivere meglio e questo fa la differenza. Come al ventenne non si riformerà una gamba, al malato di Parkinson non tornerà la guarigione: sono entrambi prigionieri, però è possibile pensare e vivere una vita piena. Chissà perchè di queste nuove strategie non è possibile confrontarsi in Italia.

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