Non siamo la Grecia ma quasi: la crisi greca anticipa quella italiana.
Non siamo la Grecia, giusto? Tutti discutono relativamente al peso e distribuzione dei sacrifici derivanti dalla recente manovra correttiva del governo. Francamente il problema è mal posto. Il punto in discussione non è chi paga di più o di meno, ma se siamo disposti a salvare la moneta unica o no.
Il costo del salvataggio dell’euro per l’Italia è di 24 miliardi (stimato e non definitivo) quello degli altri paesi sembra che siano più oneroso ma non consola.
A questo punto, assodato che si è scelto di mantenere la moneta comunitaria quale minore dei mali come agire a livello individuale? Sicuramente l’emigrazione verso l’area del dollaro o l’oro, perde di significato perché volente o no, questa moneta ce la teniamo.
Viene così a decadere “un problema di scelta”, per cui restiamo (intrappolati) in un quadro valutario certo anche se in crisi. L’ipotesi che la Grecia resti nell’area UE ma se ne vada la Germania, ha perso di sostanza, per cui tutto sommato si sta meno peggio di 10 giorni fa, dove tutto era in discussione.
Questo vuol dire vivere meglio?
No, non viviamo meglio, ma il quadro è più chiaro. Finalmente i dubbi se la crisi stia per essere superata o quell’altalena per cui oggi va bene, ma ieri era pessimo, sono superati. Ci troviamo nel pieno della seconda parte (la più dura) di una crisi che nata fuori dall’Europa, adesso incarna il nostro modo di vivere e di pagare quanto ci serve.
Per dirla in una parola, adesso la “crisi” è nostrana la cui soluzione dipende solo da noi. Come? Semplice! In una fase di rottura del mercato (quando i prezzi perdono il loro corrispettivo con la realtà perché gonfiati da speculazione) qual è quella che stiamo vivendo, per uscirne fuori serve “un patto” (ricordate il New Deal di Roosevelt?) tra produttori e consumatori, tra stato e cittadini.
Tradotto in termini operativi, la singola impresa dovrebbe lanciare un tipo di pubblicità articolata in questa maniera: produciamo italiano, conserviamo i nostri posti di lavoro, non alziamo i prezzi e manteniamo la qualità del “made in italy”, ci comprate?
Sono necessarie nuove politiche del personale che traducano l’azienda non più in un posto dove solo di lavora ma, invece, si vive. Quindi se l’azienda è vissuta servono mense, asili, gite per i dipendenti e il tutto per conciliare l’identificazione tra persona e impresa.
Si dovranno stimolare manager (o cercarne di nuovi) che sappiano parlare alle maestranze per coinvolgerle in un progetto comune; salvaguardare il proprio stipendio, TFR e pensione.
Maggiore formazione (non per scaldare i banchi) ma per produrre idee.
Più “arroganza” sui mercati per vendere, innovazione, tecnologia, fantasia e cultura. Ecco la parola magica! La crisi dell’euro, è stato già detto su queste colonne, non è una crisi finanziaria, ma sociale e il disorientamento delle persone si “cura” solo con la cultura, ovvero la produzione d’idee e partecipazione al clan aziendale e/o sociale per renderlo più forte.
All’individualismo-nichilismo (sino ad ora imperante) in azienda serve il gruppo, la squadra, il team fatto di dirigenti, segretarie, impiegati e operai, uniti per far grande un nome e loro con essi.
Quanto scrivo non è stupida esaltazione, ma l’ho visto per anni in Giappone, l’ho studiato negli USA e respirato in Canada, ma non vissuto in Italia.
Dove sono i nuovi manager che sappiano spiegare questo nuovo modo di lavorare agli italiani? La caccia è aperta! Anche perché questa potrebbe essere l’ultima battuta di caccia.