Andare alla radice profonda dell’attuale crisi: una lettera aperta al governo e alla Confindustria italiana
La seconda ondata di crisi che stiamo vivendo non è altro che la prosecuzione di quanto iniziato nel 2008 e destinata a ripetersi con diverse intensità, finchè non verrà colpita la radice del malessere. A chi presentare questi ragionamenti se non al Governo del Paese e alla Confindustria?
Per potere centrare l’argomento serve analizzarlo per punti:
a) trent’anni fa abbiamo costruito un modo di vivere basato sulla terziarizzazione in un importante ruolo della finanza in economia;
b) vent’anni fa è iniziato un processo chiamato globalizzazione, che in fondo si è concretizzato in una selvaggia delocalizzazione, portando il lavoro in paesi poveri, per garantirsi ulteriori fette di guadagno, che hanno di fatto depauperato l’Occidente;
c) l’illusione comprendeva che i paesi sviluppati avrebbero progettato e commercializzato quanto prodotto in contesti a basso costo, in pratica lanciando delle colonie produttive affinchè l’Occidente fosse sempre più verde, pulito e ricco, con una popolazione decrescente orgogliosa d’essere multiculturale, non razzista e benefattrice del mondo;
d) questo idilliaco progetto però custodiva in sé un errore di fondo; la distribuzione delle quote di lavoro tra i paesi avanzati e quelli poveri;
e) il punto di questa analisi non ruota soltanto attorno al 30% di disoccupati under 35 in Italia, o al 9% su scala globale, ma su quanta disoccupazione può tollerare una democrazia. Qui non stiamo discutendo per dare un lavoro a dei ragazzi, ma sul futuro della democrazia. Laddove ritenessimo che la dittatura (vedi la Cina) sia la forma di governo più adeguata, allora tutto questo ragionamento potrebbe essere archiviato, perché non più attuale;
f) chi ha le mani più sporche in questo processo sono quelle aziende che hanno delocalizzato per produrre all’estero, quanto poi venduto nel paese d’origine, senza assumere e garantire salari ai connazionali, i quali avrebbero impiegato quel denaro per acquistare altri beni e così via. Chi ha sottratto quote di benessere sociale alla Nazione, merita d’essere ancora tutelato dal diritto e dalla società pagando gli stessi contributi e tasse come se lavorasse in patria?
g) non si può soffocare questa analisi riportando aprioristicamente il passaggio della Costituzione Italiana per cui “l’iniziativa economica è libera”, perché questa attività è tutelata nella misura in cui contribuisce al benessere collettivo e allo sviluppo della nostra civiltà. Laddove si producono utili senza ricchezza sociale (lavoro e occupazione, giusta età per sposarsi, fare figli, costruirsi una vecchiaia e avere un barlume di “certezza” nella vita) viene meno l’interesse collettivo verso quell’impresa che ha il dovere morale di ripagare il danno arrecato alla società;
h) la crisi e le crisi nascono da una destabilizzazione strutturale dell’economia moderna, che si è dimenticata di conteggiare il numero di persone occupate;
i) chi, tra le imprese italiane, ha un numero di dipendenti stranieri operanti all’estero, che producono per il mercato nazionale, non ha diritto ad alcuna agevolazione, anzi, a un progressivo aggravio fiscale fino a essere non conveniente la sua gestione;
l) il costo sociale di 1 disoccupato ricade sulla finanza pubblica fino a destabilizzarne i conti e impegnare il governo in una rincorsa infinita del debito. Neppure la scappatoia dell’immigrazione (controllata o clandestina) può sanare il dislivello tra pensioni erogate e salari riconosciuti. Di fatto in Italia, senza un referendum popolare sull’immigrazione, l’intera normativa in essere è illegale in quanto si è voluto modificare lo stile di vita della nazione senza interpellarla. Ecco che nascono “mostri su mostri” e l’immigrazione sarebbe quel tappa buchi, per dare posti di lavoro che i connazionali non vogliono ricoprire. Come può un sistema sociale ed economico funzionare se basato su così tanti punti sbagliati?
Concludendo: si chiede una tassazione differenziata verso le imprese, in base al numero di salari erogati nel mercato di vendita delle proprie merci. Ad esempio chi produce e vende scarpe in Italia, laddove utilizzi il 20% di manodopera straniera collocata in altro stato, pagherà il 20% in più di tasse e contribuiti. Che sia la Guardia di Finanza e il fisco a leggere i bilanci e individuare le quote estere delle nostre imprese quindi a tassarle, in base a una nuova legge, ricompensando la comunità nazionale, danneggiata da “un furto” di benessere in posti in meno di lavoro. Del resto la globalizzazione non puntava a far vivere meglio l’Occidente?
Purtroppo quanto qui analizzato, non rientra negli interessi della Confindustria e del Governo. Ne consegue che sia la Confindustria che il Governo hanno pari responsabilità nella crisi del Paese. So che sopratutto la prima critica tutto e tutti, ma tenendosi sempre estranea da ogni responsabilità ed è questo uno dei motivi di malessere italiano: la Confindustria.