La chiusura delle attività produttive e commerciali, quella che gli ignoranti chiamano lockdown, è un guaio per la società? Si lo è in quanto rappresenta mancata produzione, ma che differenza c’è con la vacanza estiva? A Natale le presone “pretendono” di fare festa e d’estate di recarsi in vacanza.
La diffusa sensazione è che l’abitudine sia l’atteggiamento più importante rispetto ogni cosa nella vita.
In televisione è stato intervistato un ragazzo a Napoli. L’intervistatore chiede: stai soffrendo per la limitazione alla vita notturna? Il giovane risponde: siamo cresciuti così e ci pare strano non proseguire a farlo.
Per quanto breve ma intensa, questa intervista ci rivela molto del problema.
Abbiamo permesso a una generazione di vivere adagiata su certezze il che è un lusso.
In realtà, oltre ai soli ragazzi, questo LUSSO ce lo siamo permessi tutti. Un lusso non giustificato alla luce dell’indebitamento sul PIL. Una dinamica, quest’ultima che autorizza a ragionare in termini di fallimento della Repubblica Italiana per eccesso di debito.
Oltre alla questione se il LUSSO sia giustificato o no, lo scopo della presente riflessione è un altro. Considerato che per effetto della pandemia da polmonite cinese di fatto il lavoro rallenta, è possibile ripensare alla nostra vita?
Lo scopo dell’esistenza è lavorare e il PIL oppure essere migliori ogni giorno?
Si ha la netta sensazione che ci sia stata una sopravvalutazione dell’aspetto economico su quello morale. Non solo, se “lavorare” porta l’Italia al fallimento per eccesso di debito è meglio smettere! Certo è una battuta, ma il concetto resta nella sua interezza.
La chiusura delle attività è quel momento per “tornare” e restare a casa. E’ il tempo per ricucire i rapporti con il coniuge e i figli. Quello passato a casa è tempo “nostro” che probabilmente abbiamo colpevolmente dimenticato. Ben venga la chiusura di qualcosa che non porta ad essere migliori come lo shopping e il bighellonare tra un negozio e l’altro.