QUESTA VERSIONE DEL TESTO E’ STATA APPOSITAMENTE MODIFICATA PER CONSENTIRE UNA MIGLIORE LETTURA ALLA COMUNITA’ DEL PARKINSON
Studiando “il mondo del Parkinson” emergono degli atteggiamenti così gravi da far percepire che la notte non dovrebbe mai terminare.
Ecco il punto: quando la notte non finisce.
Per puro caso mi sono trovato a studiare il mondo del Parkinson. Anzi non sapevo neppure che esistesse e di questo non finirò mai di chiedere scusa alla Nazione, alle persone e a Dio. E’ stato imperdonabile per un cittadino e addirittura studioso del comportamento umano, non rendersi conto di quanto accade nella società in termini di dolore prolungato nel tempo. Comunque, passando oltre, perchè con le scuse non si conclude nulla, veniamo al punto: perchè, in questo ambiente, specificatamente del Parkinson, il pensiero non è libero e genera ostilità, diffamazione, urto sociale? cosa si nasconde in questo comportamento?
La risposta non è affatto facile.
E’ ipotizzabile che le nuove idee scardinino un sistema dove il malato di Parkinson (che mi ostino a considerare prigioniero) rappresenta il motore del benessere dell’industria farmaceutica? Questa tesi mi è stata presentata da un intellettuale affetto da Parkinson, che prendo in grande considerazione, anche per rispetto verso la persona e per dovere di ragionamento, ma a cui francamente non credo molto, pur pensandoci continuamente.
L’astio e la diffamazione che mi viene rivolta, nel ragionare sulla qualità di vita del il prigioniero da Parkinson, secondo me potrebbe avere un’altra natura molto più grave. La malattia, colpendo su un asse temporale così esteso, non ha “infettato” il cervello riducendone le funzioni (come molti insistono nell’affermare) ma influito nel comportamento per cui essere prigionieri da Parkinson risponde a un ruolo sociale gelosamente conservato e mostrato (esibito). Ne consegue una conflittualità particolarmente accesa del tipo: …..io soffro, tu no, perché a me si e a te no, cosa ho fatto di male io per meritarmi questo?
Ecco come in questo specifico caso il prigioniero da Parkinson diventa realmente malato. Qui troviamo la malattia nella sua condizione reale come alterazione della realtà, ricondotta a un narcisistico valore di sofferenza, da far valere in termini sociali. Come gestire l’astio e la conflittualità sociale? Su questo argomento ci sono molto studi, in ambito di sociologico, a cui ricorrere. Certamente la componente di astio e odio che si traduce in conflittualità sociale e diffamazione, diviene una concausa della malattia in ambito di Parkinson. Su ogni considerazione qui espressa si conferma l’importanza di una terapia sociologica in grado di rompere il monopolio dell’astio attraverso la comunità intesa sia in forma virtuale (il web) che reale o meglio entrambe. Solo la comunità, vissuta intensamente, potrebbe rappresentare quell’antidoto alla conflittualità che pesa su questo mondo di malati (i conflittuali) e prigionieri da Parkinson (sani nella mente e vittime del loro stesso corpo). Nell’ambito della comunità necessita la partecipazione motivata di tutti nel pulire l’ambiente educando i malati a rivedere la loro conflittualità come sistema di astio sociale giustificativo della loro personalità danneggiata.
Riepilogando:
– il prigioniero da Parkinson esprime uno spirito sano in un corpo malato. Purtroppo accade anche questo nella vita, ma non giustifica la fine della produzione di sentimenti, emozioni e di idee.
– il malato da Parkinson è colui che roso, geloso e disperato soffre visceralmente la sua condizione che diventa catapulta per una visibilità sociale pretesa. In questo caso oltre al piano più specificatamente medico, mai messo in discussione nei miei studi e alla necessità urgente di una terapia sociologica per il prigioniero da Parkinson, nella sua configurazione di “malato reale ed esistenziale” serve anche un terzo stadio di aiuto per gestire la conflittualità come astio sociale.
– sulla questione sollevata, ma ancora oggetto di riflessione (chissà per quanto) per quali interessi vengano allo scoperto, mutando l’atteggiamento del il prigioniero da Parkinson, non so esprimermi e il quadro di riferimento per quanto ricco non è ancora sintetizzabile.
Concludendo
In nome della civiltà, il messaggio è rivolto anche ai “malati”, non è possibile diffamare il pensiero assegnandogli una colpa per il solo fatto d’essersi formato.
Questo significherebbe che alla notte non seguirebbe mai il mattino.
E’ vero che i figli della notte sono sempre esistiti e si configurano come degli “incazzati sociali”, ma vanno educati alla riflessione dalla comunità, che ormai li ha individuati e ne conosce la debolezza: l’odio.
Al contrario per il prigioniero da Parkinson, ovvero i sani incastrati in un corpo che non risponde ai loro desideri, è saggio aprire una terapia sociale di gruppo, virtuale o reale, dove solo nella condivisione in amicizia e sincerità è possibile ricostruire la generosità e l’attitudine a creare il pensiero.
Ecco; creare pensiero! Questa è la parola d’ordine.
Una buona parte dell’odio che mi si rivolge è perchè non credo nella formalità di studi e ricerche per solo contare la sofferenza ai fini statistici, di cui ero parte, quando invece credo fermamente in una mobilitazione di persone che vogliono stare meglio, pensare di più smettendo di considerarsi vittime per riconoscersi eroi giornalieri di una guerra senza fine.
Per essere “eroi” il prigioniero da Parkinson deve smettere l’astio e pensare, scrivere, motivare, amare, pubblicare, esprimersi come esercizio alla vita svolto ogni giorno in un contesto di comunità.
Per aver scritto questo devo andare al rogo?