Studi e considerazioni sul paziente zero in applicazione alla teoria sociologica al Parkinson nota come “Il prigioniero da Parkinson”
Prof. Giovanni Carlini e dott.ssa Giulia Cristina Pinolo Sacchi
In applicazione della nuova teoria sociologica al Parkinson, nota come “Il prigioniero da Parkinson” emerge, sul “paziente zero”, un grave problema nella dolorosa reazione fisica successiva, solitamente il giorno dopo, alla forte sollecitazione emotiva vissuta per reagire al male come metodo e sistema di vita. Detto più semplicemente, il paziente da Parkinson (qui riconosciuto come prigioniero) seguendo l’applicazione pratica della teoria sociologica, vivendo forti emozioni, tali da sollecitare l’intero sistema nervoso riattivandolo dai capricci tipici del Parkinson, solitamente paga uno scotto doloroso come reazione fisica di un corpo che non vuole reagire condannando il prigioniero in una tomba viva. Come fare?
Per riannodare tutta l’impostazione nota in dottrina come ”Il prigioniero da Parkinson” servono richiamare alcuni passaggi riassuntivi che sono:
- purtroppo esiste una malattia che si chiama Parkinson, che colpendo il sistema nervoso, incapsula persone sane dentro un corpo malato. Chiuse in questo scafandro le persone reagiscono solitamente in due modi diversi. La stragrande maggioranza si lascia assorbire dalla malattia convivendoci insieme accettandone e subendone le conseguenze. Questi sono i malati. Un’altra parte, al contrario, lotta per “evadere” dai limiti di un corpo che non risponde più ai propri ordini; si tratta dei prigionieri da Parkinson. In pratica abbiamo dei rassegnati (la maggioranza) e dei ribelli (pochissimi). Il primo aspetto da chiarire quando si è di fronte a una persona colpita dal Parkinson è: si tratta di un malato o di un prigioniero? La risposta non può che venire dalla persona stessa e non dal ricercatore. Ovviamente accade molto spesso che ci si dichiari “prigionieri” senza esserlo, anzi è quasi la norma.
- Nel caso sia stato chiarito (ma ci saranno mille ripensamenti) che siamo in presenza di un prigioniero, bisogna subito fornire gli strumenti per reagire alla malattia (farlo evadere) quindi si entra in piena applicazione della teoria sociologica nota come “Il prigioniero da Parkinson”.
- La teoria è “semplice”. Constatato che il Parkinson attacca il sistema nervoso, è esattamente da questo punto che serve scatenare la risposta alzando enormemente la capacità di percezione nervosa, sensoriale ed emotiva del prigioniero. In pratica un “colpo su colpo” che porta il paziente a reagire come se fossimo su un campo di battaglia. Perfettamente il contrario dell’attuale procedura di cura.
- Per ottenere questa ipersensibilità reattiva, il prigioniero ricorre alle sue personali e intime facoltà umane, assemblando delle risposte al sistema nervoso malato. Questa è la parte più difficile perché serve, attraverso l’uso della disciplina, sviluppare ogni carisma, facoltà, capacità, inclinazione e sensibilità di cui è dotata la persona. Uno sforzo di questo tipo, crea sensazioni nervose “buone” lanciate contro quelle “cattive” (il linguaggio è semplicistico e a puro titolo d’esempio). Siamo al centro della teoria sociologica che richiede, al contrario della vittimizzazione tradizionale del paziente, tipica di ogni patologia, un’importante ripresa di carattere e forza per combattere il proprio stesso corpo: in pratica stiamo chiedendo qualcosa d’innaturale e contrario alla tradizione, anche perché in questo caso la posta in giorno è grande.
- La nuova teoria sociologica al Parkinson spinge così il prigioniero a esaltare ogni sua teorica o pratica capacità attraverso il canto, la lettura, la pittura, lo studio, il sesso, la fisicità e intimità di coppia, lo sport, la fede nel senso religioso. In realtà non è importante come e perché il prigioniero reagisca, ma la reazione che dovrà essere strutturale e continuativa nel lungo tempo. Ecco perché nella teoria sociologica si parla di militarizzazione della risposta al Parkinson da parte del prigioniero.
- Concettualmente se questa impostazione potrebbe essere ritenuta valida, nascono però altri 2 problemi. Il primo, discutibile ancora nel perimetro della sociologia, riguarda il mantenimento dell’attivismo emotivo (che non è sovraeccitazione) mentre il secondo rientra nella prassi medica perché intacca la posologia farmacologica.
- Mantenere in attività un organismo umano su alti livelli d’impegno emotivo, richiede la presenza di un partner (ambito di coppia) educato a quelle nuove necessità, che spesso gli stessi prigionieri non dichiarano. In pratica ci troviamo quasi normalmente in presenza di partner che non hanno capito cosa devono fare per dare assistenza al loro caro, affetto da Parkinson, perché, causa vergogna e immaturità, non viene loro detto nulla sui bisogni intimi da parte del malato/prigioniero. Ecco che qui serve un salto di qualità nella personalità dei prigionieri (un primo passaggio da ottenere tramite la teoria sociologica). Tornando al tema, il mantenimento dello stato di reazione emotiva alla malattia deve essere assicurato dal partner che assume il ruolo di un “sergente dei Marines” in fase d’addestramento alle forze speciali d’attacco della Marina degli Stati Uniti noti come Navy Seal. E’ un eufemismo, quindi un esempio, ma che inquadra perfettamente il ruolo propositivo e di sentinella, che il partner deve sviluppare sul prigioniero, profilando un duo in azione. L’uno “tortura” l’altro per essere “il meglio e di più” di se stessi, oltre quanto immaginabile. Si tratta di un training continuo e quotidiano, pena la perdita della vita in un appiattimento mentale, misto a rabbia sociale e invidia, come si osserva frequentemente nei casi studiati in Italia. Emerge da questo punto in poi come la presenza di un partner “militarizzato” e una comunità virtuale e reale di sostegno, siano quegli elementi di conforto indispensabili alla riabilitazione emotiva di un malato verso lo status di prigioniero da Parkinson. Il quadro si complica, ma non è ancora impossibile da gestire, pena la perdita di una vita degna d’essere vissuta. Riassumendo, per una reazione importante al male, serve un partner vivace e una comunità di riferimento, che svolga un ruolo sia propositivo che di sorveglianza nell’evoluzione emotiva del prigioniero.
- Manca un passaggio: quello farmacologico. E’ stato osservato nei pazienti italiani, una sorta d’intossicazione da farmaco che blinda e chiude la mente dei malati lasciandoli in una sorta di letargo, come mettere dei chiodi per blindare la bara. L’affermazione è forte e trova conferma nei dolori che il prigioniero da Parkinson subisce all’indomani delle forti emozioni vissute seguendo questa prassi sociologica. Qui la ricerca sociologica deve cedere il passo alla medicina.
La medicina alternativa
La dott.ssa Giulia Cristina Pinolo Sacchi è ancora tumefatta dalle percosse subite dai cinesi essendo rientrata in Cina dopo esserne stata espulsa. Il suo crimine è aver tradotto la Bibbia in cinese. La dott.ssa Sacchi è dovuta rientrare in Cina per recuperare i suoi appunti di studio maturati in 20 anni di medicina applicata. Oggi la Sacchi, per riprendersi dai colpi e fratture ricevute, si trova rifugiata in Corea del Sud.
Dott.ssa Sacchi, lei di fronte alla teoria de “Il prigioniero da Parkinson” parla di omeopatia, può per cortesia sviluppare il suo pensiero per noi anche scrivendo con una mano sola causa le fratture subite e i 39° gradi di febbre che sta soffrendo?
Sacchi: grazie per l’opportunità che mi si offre nel poter partecipare alla teoria nota come “Il prigioniero da Parkinson”, che sto studiando da qualche mese e discutendo qui in Corea del Sud. Per cercare ipotesi di risoluzione al problema di un sovra dosaggio farmacologico nei prigionieri di Parkinson, propongo la terapia omeopatica che ha svolto degli studi specificatamente in quest’ambito.
Non ripeterò mai abbastanza come dalla natura, nel nostro corpo e spirito, abbiamo già tutto quanto necessario per curarci anche se questo concetto non lo vuole capire nessuno, perché è più facile drogarsi con massicci interventi farmacologici.
La medicina cinese e la cultura Auyrveda, nella omeopatia ci vengono in aiuto: Ginko, Biloba e Macuna Pruriens sono delle erbe che aiutano sia la circolazione che la reattività neuromuscolare, perché la Macuna contiene Levodopa, ovvero un aminoacido precedente la Dopamina. Mi sono noti gli studi in Occidente, che pongono in guardia sulla Mucina Pruriens in merito all’insorgenza del cancro, il mio riferimento è alla cultura indiana e cinese, dove non c’è traccia su questa ipotesi comunque da prendere in considerazione forse per i diversi stili alimentari occidentali. Altro aiuto è dato dall’assunzione di Q10, coenzima che produce energia cellulare aiutando la respirazione. La vitamina C inibisce la formazione di radicali liberi, evitando un precoce invecchiamento.
Non va trascurata la fisiokinesiterapia, perché di grandissimo supporto al quotidiano. Tai Chi, Yoga e Agopuntura, migliorano la conduzione neuronale e di conseguenza la vita personale e relazionale del malato di Parkinson. Concludendo c’è da considerare una diversa via alla cura del Parkinson che fatica ad entrare nelle menti di prigionieri, perché già intaccate dalla potenza del male che preclude una nitida visione della residua vita che ancora hanno da vivere. In pratica dei vivi in attesa di finire la vita che soffrono con ira e ostilità, rassegnazione e iper reazioni disordinate al resto della loro esistenza. Non sono ovviamente tutti così i pazienti di Parkinson, ma questo appena descritto segna una tendenza importante con la quale “fare i conti”. Il Parkinson ti spegne la vita e noi dobbiamo reagire!
Un ultimo problema: l’iperattività sessuale indotta come conseguenza dai farmaci o come reazione comportamentale al dramma che vive un malato di Parkinson?
Concludendo questo primo rapporto sulle esperienze maturate studiando “il paziente zero” emerge, da contributi diversi offerti da molte persone, in particolare di genere femminile, un fatto ricorrente ancora motivo di studio.
Pare che sotto effetto dei farmaci, le donne colpite dal Parkinson (non si hanno ancora risconti consistenti sui maschi, che restano a livello episodico) subiscano un disordine nei comportamenti sessuali attraverso i quali si pervenga a un’iperattività, spesso rivolta oltre il solo partner, che solitamente è incapace d’adeguata risposta, perché non educato nella precedente vita affettiva. Ripeto: è solo un abbozzo di studio in fase di raccolta dati e testimonianze, dove la difficoltà risiede nel cercare di capire quanto questa reazione sia comportamentale e quanto invece spinta dal supporto farmacologico.
Certamente gli effetti pratici, sulla stabilità di coppia sono terribili, perché a mariti incapaci di capire e reagire (immaturi) si contrappongono atteggiamenti femminili decisamente vivaci e bisognosi di cibo. In questo la sociologia della sessualità ha già le sue risposte osservando un naturale e rituale capovolgimento degli appetti sessuali nelle donne over 50 anni post menopausa, tale da disorientare i consorti. Quest’abituale dinamica intima, pare che nel caso del Parkinson subisca una forte accelerazione, che assume aspetti destabilizzanti se i coniugi non fossero preparati. A volte le conseguenze sono anche la separazione della coppia, purtroppo decisa non capendo e conoscendo tutte le conseguenze e forze in atto.
Siamo comunque in presenza di vittime, che o sopraffatte dal dolore o per reale effetto della cura, reagiscono anche sessualmente (è una delle funzioni vitali come ci insegna la psicanalisi) al dramma. Siamo in una fase di raccolta studi provenienti sia dalla sociologia della famiglia, sia dalla sociologia della devianza che infine dalla sociologia della sessualità per formare una nuova ricerca, che si possa chiamare sociologia del dolore, in cui far confluire la teoria nota come Il prigioniero da Parkinson.