Il distretto industriale italiano è in crisi cercando una nuova era. Crisi del modello aziendale familiare
Il distretto industriale è in crisi come modello. Ci sono nuove vie da percorre?
Distretto industriale, la voce della sincerità. Un imprenditore, uno dei tanti tra i 4 milioni attivi nelle PMI in Italia scrive. Ho quasi 60anni, dall’azienda ho ricevuto molte soddisfazioni. Possiedo la villetta sia in città sia al mare. Un po’ di soldi li ho messi da parte. I miei figli d’alzarsi presto al mattino e venire qui a lavorare non ci pensano neanche. Chi prenderà il mio posto? Ho zero ordini per i prossimi 4 mesi. Perché dovrei mettere i miei risparmi in azienda se non ho prospettive?
Il distretto industriale come concetto per lavorare è in crisi. Pare che il pensiero di chiudere l’impresa sia molto diffuso. Altri capitani d’impresa “tengono duro”, assumendo le difficoltà quale banco di prova per il loro carattere. C’è anche una parte d’imprenditori che “attendendo”. Infine altri che si lanciano in nuovi investimenti cercando mercati diversi.
Tutti, però, stanno agendo, chi nel bene come nel male, privi di prospettive.
Ovviamente queste visuali non le ha nessuno e non si può farne una colpa ai capi d’azienda. Il limite della piccola impresa e quindi del distretto è tutto qui. Il non saper “guardare oltre” limitandosi al solo mercato. Un’impresa sotto capitalizzata, in crisi organizzativa, priva di una politica del personale. Spesso appesantita da assunzioni finalizzate agli equilibri di famiglia-parentela. Questo solo per citare i casi più eclatanti.
La differenza tra un’impresa familiare e quella di mercato
Nell’impresa familiare i caratteri più importanti sono connessi a come ci si colloca sul mercato. In questo caso, la valenza fondamentale è lottare per imporre il prodotto. Sgomitare senza ritegno, portando a casa più fatturato possibile. L’azienda nasce, di conseguenza, sui successi che di volta in volta si ottengono. Raggiunta una certa struttura e maturità, permangono quei fattori di vivacità molto spinti e una personalizzazione acuta.
Il “battitore libero” è il protagonista di quest’impresa originale. Si adatta rapidamente al mercato. Da qui però anche i problemi. La forte personalizzazione dell’imprenditore porta i dipendenti (familiari) al non saper far squadra (altro punto di frizione). Questo alza la conflittualità interna e i particolarismi individuali comportano nevrosi organizzativa.
In assenza di una creatività e protagonismo molto spinti, l’impresa familiare scompare.
L’impresa di mercato nasce spesso da una realtà familiare che si è ingrandita che ha anche subito una radicale trasformazione. Qui si ribaltano i caratteri appena individuati per l’impresa familiare. Il punto di riferimento non è più solo il mercato. Soprattutto il “mercato interno”, ovvero i criteri d’organizzazione che assume l’azienda. Il riferimento è alla sua immagine proiettata non solo verso il cliente, ma anche come percepita dalle maestranze.
Questo tipo d’attività imprenditoriale è meno “fantasiosa” della familiare, ma in compenso “dura come la roccia”. Questo perché si fa forte del fattore umano. Un fattore che potrebbe anche non essere eccelso, ma sicuramente compatto e arringato da una accorta politica del personale. Ecco il segreto. In questo caso, la ricchezza in azienda sono gli uomini e le donne, che ci vivono.
Una compagnia industriale o commerciale così descritta non scompare dal mercato in caso di crisi. Regge duro perché ne costituisce la storia, restandone un punto di riferimento.
Nel confronto tra i due modelli quest’ultimo riesce a produrre con un 12-17% in meno di costi. Il che è poi quella differenza tra restare o scomparire.
Il falso mito del “faso tutto mì”
Negli anni Settanta e Ottanta il distretto industriale ebbe successo. La spiegazione ruotò intorno a un modello d’imprenditore particolare. Un “tutto fare” capace d’essere allo stesso tempo più cose. Un rapido camionista, un accorto direttore amministrativo/finanziario, come infine uno stratega commerciale. Non ci sono dubbi che in un mondo diviso “dal muro di Berlino”, un imprenditore “locale” fosse adeguato. Al massimo poteva essere attivo in ambito MEC (si chiamava così l’attuale UE)
Dal 1990 e con rapidità crescenti, il mondo si è reso più largo ma complesso. In un certo senso più difficile, con occasioni da cogliere immediatamente, pena perderle con altrettanta velocità.
Il bisogno di restate al passo con il mercato, ha imposto all’imprenditore, di far entrare in azienda figure specializzate.
Purtroppo questo allargamento della base manageriale si è attuato incorporando persone della famiglia. Ovvero personaggi privi di specifiche conoscenze tecniche.
Contemporaneamente le nuove leve dell’imprenditoria industriale, appunto perché membri della famiglia si sono lanciati in una fase d’arricchimento. Auto di lusso e abiti firmati come appartamenti e investimenti di tutti i tipi. Tutto ciò ha escluso la continua capitalizzazione dell’impresa. Per “dirla tutta”, è stata usata l’attività per l’esigenza d’apparire nel sociale, senza preoccuparsi di sostenere l’azienda.
La sottocapitalizzazione delle PMI e delle imprese è tutta qui.
Le aziende italiane sono sottocapitalizzate, il che significa che non hanno un capitale sufficiente per poter agire. In pratica sono troppo dipendenti dai flussi bancari. Questa inadeguatezza comporta che l’80% delle aziende è a rischio di fallimento.
Il distretto industriale italiano come sistema per produrre
Parlare di crisi del sistema industriale senza entrare nel merito dell’etica in economia, significa non coglierne il senso.
La crisi in corso non è un momento di inviluppo del mercato ma rappresenta lo sgonfiamento di un falso benessere. Un benessere che diventa falso quanto è vissuto alle spalle degli equilibri delle proprie aziende. Imprese che oggi sono “povere” di mezzi finanziari. Per sganciarsi dalla dipendenza del credito bancario, non serve solo emettere obbligazioni di distretto. Occorre cambiare un modo di lavorare e dirigere l’impresa.
E’ stato pensato di consentire ai distretti industriali di poter emettere obbligazioni. Fortunatamente l’idea è sfumata.
Le aziende sono persone (anche se giuridiche) con il loro carattere e modo di fare.
Il carattere di un’impresa lo si scopre dalla sua TAM (tendenza annua mobile). Il distretto industriale è ancora una buona idea per produrre se si torna alla regola della capitalizzazione.
La crisi del distretto
Nel contesto dei distretti italiani, l’inadeguatezza dell’impresa familiare, “esplode” in tutta la sua drammaticità. Pecca di scarse visioni imprenditoriali. Un basso profilo culturale. Eccezionale dipendenza dal credito bancario. Sotto capitalizzazione. Assenza di manager di professione in grado d’introdurre visuali diverse. Ecco di familiari non preparati nel ruolo di manager.
La crisi è di sistema; che si fa?
La soluzione è “semplice”. Abbassare i livelli delle retribuzioni della proprietà e degli attuali manager familiari. Dimostrare d’essere capaci di sapersi privare “del proprio” per immettere nuova liquidità nell’impresa. Alzare la qualità del prodotto ponendosi al riparo dalla concorrenza selvaggia (specie cinese). Accettare in azienda figure esterne, come consulenti e professionisti.
Serve “sangue nuovo” nella famiglia imprenditoriale italiana.