Il vero rischio che corre la democrazia con una disoccupazione eccessiva
Questa riflessione non viene diffusa per ovvie ragioni, ma è nell’aria in Italia in questi anni. La domanda è: quanta disoccupazione è in grado di sopportare la democrazia come forma di governo? Hitler giunse alla Cancelleria, in Germania, utilizzando molti aspetti tra cui la pressione sociale dei disoccupati sulla Nazione.
Certamente la Germania del 1932 non aveva la metà dei giovani disoccupati, come oggi in Italia, ma un numero nazionale intorno al 30% coinvolgendo tutte le coorti. Resta il problema: quante persone disoccupate possono esserci in una democrazia?
In Italia, mentre queste righe sono meditate, ci sono oltre 3,1 milioni di persone senza lavoro. E’ il dato ufficiale, che non considera coloro che vorrebbero essere maggiormente impiegati in attività lavorative, o quanti hanno rinunciato a cercare. Pare che considerando queste categorie di dolore sociale, si giunga a ben 6 milioni di persone.
Restando nei dati ufficiali sulla disoccupazione e sapendo che mediamente si versano 300 euro di tasse al mese, prelevati dalla busta paga, ogni mese il fisco riceve in meno 9,3 milioni di euro di tasse non versate, perché non prodotto alcun lavoro.
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Si precisa, al fine di comprendere la dimensione del fenomeno, che questo è un importo mensile, non annuale. Contemporaneamente il Governo in carica, diretto da un personaggio non eletto dalla Nazione se non come sindaco, ricerca 4 milioni annui per inseguire chissà quale progetto. L’ennesimo.
Bastano questi dati per inchiodare una clamorosa responsabilità politica che si accompagna a una classe imprenditoriale “di serie C” non adatta alle sfide dei tempi globalizzati. L’una influisce sull’altra in una giravolta d’accuse d’inconcludenza il che è vero ma per entrambi.
Quindi abbiamo gli imprenditori, quelli considerati “baciati da Dio” che non avviano ricerca e sviluppo, restando sulla difensiva (a cosa serve un capo d’azienda se non investe, inventa e incarna il ruolo audace della società?) o al massimo capaci di delocalizzare per un personale arricchimento e depauperamento nazionale di posti di lavoro da cui consegue disoccupazione e calo della spesa/consumi. Questa costante contrazione della spesa delle famiglie produce riduzione dei fatturati delle imprese: del genere il cane si morde la coda. Ovviamente il meccanismo s’interromperà solo quando l’Italia scoprirà l’acqua calda: i processi di reshoring[/fusion_builder_column][fusion_builder_column type=”1_1″ background_position=”left top” background_color=”” border_size=”” border_color=”” border_style=”solid” spacing=”yes” background_image=”” background_repeat=”no-repeat” padding=”” margin_top=”0px” margin_bottom=”0px” class=”” id=”” animation_type=”” animation_speed=”0.3″ animation_direction=”left” hide_on_mobile=”no” center_content=”no” min_height=”none”][1] già applicati con successo negli Stati Uniti e ora in Gran Bretagna. E’ dal 2012 che su questo argomento sociologi ed economisti audaci scrivono, ma senza effetti sull’esecutivo italiano che resta sordo. A questi s’accompagna una classe politica ubriaca di progetti di rinnovamento, soprattutto nell’ultimo esecutivo.
L’anomalia italiana è ancora una volta confermata. Come uscire fuori da questa trappola che sta minando la stessa democrazia nel Paese. Non è affatto scontato che la maggioranza, chiamata alle elezioni, possa scegliere la democrazia se esasperata da figli privi di lavoro, debiti e assenza di prospettive. Questo è il rischio che contribuisce alla decadenza della società occidentale e italiana.
Appare inutile sottolineare come ogni forma di riscatto della società, passi attraverso la correzione degli errori commessi dalla globalizzazione e in particolare nel recupero del numero di posti di lavoro perduti. Ogni altra iniziativa (riforma del Senato, della Giustizia etc..etc..) come anche andare a cercare soldi all’estero, sono un pagliativo, una sorta di paravento per celare l’unico vero problema: l’assenza della dignità di un posto di lavoro per gli occidentali. Risolto il problema del lavoro e restituita serenità alla Nazione (lavoro, possibilità di sposarsi, procreare figli e vivere con un orizzonte di vita di fronte agli occhi) il resto è possibile.
L’insistere nel non voler fare quanto necessario, è una responsabilità politica che non ricade su chi non è stato eletto perché nulla rischia, niente era e nulla è, ma non può che avere le sue conseguenze su una sinistra che ha perso “la grande occasione” di rilanciare la Nazione, confermandosi storicamente inadeguata. Ovviamente la critica qui espressa colpisce anche il sindacato nella sua responsabilità di difesa del privilegio in una guerra tra poveri. Chi s’interessa dei disoccupati che attraverso il voto potrebbero cambiare le regole del gioco politico, se solo un leader si proponesse verso quest’area di dolore sociale non ascoltata?
[1] Reshoring è una procedura di governo per correggere gli errori della globalizzazione. Lanciata dalla prima presidenza Obama nel febbraio 2012 per fronteggiare il rischio di perdita della presidenza al secondo mandato, consiste nell’invitare le aziende che hanno precedentemente delocalizzato la produzione per re-importare il prodotto nella Nazione d’origine (causando danno ai posti di lavoro possibili a favore dei cittadini) a tornare in Patria. Questo invito consiste in forti sconti fiscali e aiuti sui costi di urbanizzazione nella realizzazione di nuove strutture industriali. In questo modo, chi produce per il mercato d’origine ma aveva delocalizzato per lucrare sul differente costo del lavoro, rientrando contribuisce a ridurre il volume di disoccupazione rilanciando i consumi interni che sono poi quelli strategicamente necessari al rilancio o alla stabilità dell’economia moderna. Il reshoring, applicato con successo negli Stati Uniti ha permesso nel 2015 un’evoluzione del PIL per valori importanti, forse nell’ordine del 4 o del 5% quando in Italia da anni è sotto lo zero comportando la regressione del Paese. Il reshoring è ora applicato anche in Gran Bretagna con risultati interessanti. In Italia non si sa cosa sia benchè dal 2012 ci siano studi pubblicati sull’argomento dal Prof. Giovanni Carlini che per primo studiò negli Stati Uniti questa procedura d’aiuto all’industria manifatturiera.
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