I cannoni di agosto: appunti di geopolitica/5
I cannoni di agosto nella generazione dei cinquantenni, rappresenta un libro fondamentale. Scritto da Barbara W. Tuchman ci ha insegnato come la casualità può costare 10 milioni di morti.
Il filo conduttore del saggio è molto semplice: spiega come è riuscito a scoppiare il primo conflitto mondiale. Concettualmente, la guerra fu il banale esito di un automatismo. In pratica se mi guardi storto io rispondo, se mi spari una cannonata io replico con una salva d’artiglieria e così via. Alzando il livello d’azioni e risposte s’arrivò con estrema naturalezza all’apocalisse della modernità. Se dagli errori s’impara, si dovette giungere al 1962, in occasione della crisi dei missili di Cuba, dove Kennedy non rispose “colpo su colpo” a Chruscev, spezzando la logica “del taglione”. Non a caso, a Vienna, al termine della crisi, il Presidente americano donò una copia del libro “I cannoni di agosto” al suo corrispondente russo.
Queste 10 righe di sintesi qui annotate, sono costate 24,4 milioni tra morti e dispersi e 21 milioni di feriti. In tutto oltre 45 milioni di persone coinvolte, in particolare occidentali, con effetti permanenti nelle loro esistenze. Ebbene l’escalation nella voglia d’intervenire sulla Libia mi ricorda esattamente il gioco degli automatismi già descritto dalla Tuchman. Sia chiaro che a me, Gheddafi, non piaceva prima e tantomeno lo apprezzo adesso, ma francamente, questo capo tribù, osannato per 40 anni dal suo popolo, sta rispondendo a un colpo di stato, non a una “rivolta del pane”. Quando i francesi nel 1962 lottarono in Algeria contro la rivolta berbera, lo fecero forse diversamente dalle bombe libiche sui libici? Insomma che l’ONU si riunisca passi, ma morire per Tripoli mi pare decisamente esagerato. Inoltre una forza d’interposizione occidentale in terra islamica, tende a replicare quanto già avvenuto in Irak e Afghanistan.
Per quanto detto, il coinvolgimento in Libia (in quello scatolone di sabbia come si definì il paese africano nel nostro passato coloniale) è un errore strutturale come farsi del male da soli.
Passiamo alle aziende. Cosa devono fare? Nulla. Stare lontano il più possibile da questo teatro di guerra civile e misurarsi su altri mercati, non ultimo quello interno che rappresenta la grande sfida alla sopravvivenza del nostro sistema economico. Osserviamone i particolari.
Le persone spendono poco perché hanno paura.
La paura deriva dalla non certezza (aspetto sociologico insito nella società del rischio, ovvero quella attuale che ha elevato “il rischio” a gioco, per sentirsi percorsa da un brivido in una monotonia di fondo). Partendo dal presupposto che la noia è una malattia, la nostra società è malata di inadeguatezza (mancato studio e maturazione) e di carenza di posti di lavoro. Ne consegue che la propensione alla bassa spesa è strutturale.
Nonostante la debolezza caratteriale e comportamentale dell’Occidente, come sottolinea il Prof. Fortis sul Sole 24 Ore, l’equilibrio in economia, ora più che mai, lo si trova agendo sul mercato interno. Si tratta della nuova sfida in Germania pena la decadenza. Infatti l’economia tedesca da molti mesi è in costante flessione nell’export e ancora sotto del 20% rispetto i livelli pre crisi del 2008. Ne consegue che per il 2011 le speranze della grande Germania, non sono più affidate alle esportazioni, ma alla domanda interna.
Così è negli USA, in Giappone, come in Francia e Gran Bretagna dove è in atto un processo di ri-industrializzazione ritirando quelle imprese che furono incautamente delocalizzate. Tutto ciò al fine d’aumentare la forza occupata nel rispettivo paese elevandone la ricchezza.
Il futuro dell’economia italiana non si costruisce in Libia, ma in quelle sabbie potrebbe compromettersi; va sgonfiato un bluff. Tecnicamente si chiama “fenomeno collettivo”, capace di catalizzare la totale attenzione su un fatto ritenuto erroneamente cruciale. Così fu per la candidatura Obama alla Presidenza rivelatasi un fallimento e tanti altri eventi, quali la morte di Diana a Parigi e i funerali a Londra e oggi i tumulti del Maghreb.
Sgonfiando accadimenti di questo tipo carichi più d’inchiostro giornalistico che sostanza, restano i grandi temi per superare la crisi: la domanda interna e la capacità delle nostre imprese d’aggregarsi per poter competere sul mercato. Possiamo concentrarci su grandi temi di questo calibro, anziché inseguire gli asini che volano?