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Far parte di un distretto non protegge più. La crisi del distretto industriale

by Giovanni Carlini
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Far parte di un distretto non protegge più. La crisi del distretto.

I distretti industriali sono diventati espressione della crisi. Dispiace dirlo. Purtroppo la crisi sta rimescolando le carte e i punti di riferimento tradizionali. Da ciò consegue che se il distretto nel suo complesso possa ripartire, non si esclude che la singola azienda chiudere.

Quando si afferma che la crisi è dura nel senso di difficile, si vogliono esprimere diversi concetti. Ad esempio uno tra i molti: la “solitudine” delle PMI, che restano senza interlocutori. Un altro problema è lo scollamento tra distretto industriale e singole aziende. Si tratta di una divaricazione che accade per la prima volta nella storia economica del paese. Il problema è che se non c’è protezione ai partecipanti, cessa la funzione stessa di distretto industriale. A questo punto chi riesce a prendere al volo il treno corre, altri restano a terra.

Un’economia anemica priva di liquidità
Si osserva una crisi di liquidità inedita. Non solo. I numeri relativi ai fallimenti sono drammatici.

+ 563% a Napoli.

+271,4% a Brescia.

+ 230,5% a Bologna.

+ 511,1% a Genova.

+ 47,3% a Milano.

Serve portarsi al secondo dopoguerra e ritrovare una situazione similare. Allora però ci fu la speranza che oggi manca.

Non è finita serve parlare anche degli insoluti. Spesso oscillano tra il 30 e il 60% del fatturato. In questa situazione tutti sono battitori liberi. Il distretto industriale ha perso la sua tradizionale compattezza.
Una soluzione a cui “i migliori” stanno ricorrendo è il ri-finanziarsi. Oggettivamente va osservato come siano stati sottratti in questi ultimi anni troppi capitali all’azienda. E’ stata vissuta una stagione d’eccessi nel consumo. Il concetto di fondo è molto semplice. L’impresa non è solo di chi l’ha fondata o dirige, ma di tutti coloro che ci lavorano. Sostenere l’impresa significa proteggere un bene comune. Se l’impresa è di tutti, allora c’è condivisione al taglio dei salari per tutti.
Giustamente molti imprenditori, applicando questo concetto aprono il portafoglio. Il rischio però è quello di finanziare un’azienda che non ripartirà. La prospettiva è stata oggetto di riflessione in Bocconi sulla crisi in corso, presente Giulio Tremonti.


Sul ri-finanziamento aziendale vanno fatte delle valutazioni. Soldi perduti nel calderone dei debiti o investiti nella propria impresa per farla decollare? Comunque l’investimento è sempre nell’ordine del milione poco meno. Denaro che rientra nella contabilità sia come aumento di capitale sia come d’apporto di liquidità.

Ma non basta.

Rapidamente è emerso che serve un modo diverso di fare impresa. Ad esempio, gli insoluti sono minori dove c’è una politica commerciale. Serve il servizio ai clienti, che vengono visitati sistematicamente dagli agenti. “Educare” il cliente è un passaggio importante in una relazione azienda-fornitori-clienti. In fondo si tratta di stilare dei piani settimanali di visita clienti. L’obiettivo è monitorare la domanda. Fidelizzare il cliente. Mantenere con il mercato un contatto continuativo che esprima “cultura d’impresa”; ecco la parola magica.

Senza cultura d’impresa si chiude.

Ogni cosa che si può fare intorno a un’azienda in difficoltà, passa per il piano di marketing. E’ in questo documento che si chiarisce la politica commerciale. Gli acquisti. Le politiche di vendita, del personale, finanziarie e quindi di strategia. Il concetto è quello di cogliere la crisi come una opportunità. Grazie alla difficoltà fare pulizia in casa propria. Il tutto per rilanciare un’idea nuova. Significa l’adozione di un codice etico, il ri-finanziamento, lo stabilire delle politiche. Il ridimensionamento delle paghe (soprattutto dei responsabili). Coltivare un nuovo rapporto con i fornitori e clienti (cenni di customer care). Tutto questo rappresenta un quadro complessivo, che finora è obiettivamente mancato.

Questa necessità di ringiovanimento vale a carattere generale, per ogni tipo di azienda. A maggior ragione quelle inserite in un distretto. Le PMI solitamente sono molto attente (troppo) sugli acquisti. Agli stock di magazzino, ma soffrono di una scarsa cura nella gestione del cliente e del fattore umano interno.

L’intera “bellezza” di un’azienda è messa in dubbio per solo una crisi di liquidità.

Ecco cosa significa “osare di più” negli appelli del governatore della Banca d’Italia verso la Confindustria. Manca un nuovo pensiero aziendale che avvicini le imprese italiane agli schemi più completi e aggressivi. Che sono poi quelli tedesche e anglosassoni. E’ su questa chiave di lettura si gioca la sfida e in definitiva l’insoluto.
Un’ ultima cosa: va ricordato che cultura significa saper cosa fare, dove andare e come muoversi. Alle aziende italiane e in particolare nel settore PMI, manca lo sforzo di progettare su se stesse.

I nuovi modelli di distretto per affrontare il futuro
La punta più avanzata nel sistema distrettuale si concentra in pochi settori. Nautica, automotive, nuove energie, aerospazio, cosmetica, armi e l’arredo evoluto nel rispetto dell’ambiente. Questi sono i nuovi cluster produttivi industriali su cui si scommette la ripresa.
La Regione Lombardia ha indicato nuove modalità per l’aggregazione delle PMI all’interno dei cluster. Si parla del programma Driade, lanciato per competere a livello internazionale.

L’aggregazione come metodo e sistema anche per gli artigiani
Il distretto non è solo PMI ci sono anche gli artigiani. I migliori fatturati sono in questo settore. Manca però una politica di assistenza agli artigiani.

Conclusioni
Le PMI del distretto vedono nell’aggregazione la possibilità di sviluppare l’innovazione senza la quale non potrebbero più restare sul mercato. Per far ciò serve anche un rinnovato quadro finanziario. Su questo livello, la proprietà è impegnata a riportare in azienda energie finanziare. Purtroppo c’è da riconoscere come la singola azienda, inserita in un distretto, giochi da sola la sua partita.

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