Danno da carenza di prospettive, ovvero mancano le idee su come condurre l’impresa.
Studi sul danno da carenza di prospettive. Moltissimi imprenditori più o meno affermano: lavoro da 35-40 anni nella mia azienda che ha un discreto successo, ma i miei figli d’alzarsi presto al mattino e di proseguire l’attività, non lo pensano neppure! Un po’ di soldi da parte li ho messi, ho la casa e mi trovo con 6 mesi di vuoto d’ordini in azienda. Che faccio? Vendo l’impresa o ci metto dentro i miei risparmi, senza alcuna garanzia di ricevere lavoro fra 6 mesi per proseguire?
Analizzando il danno da carenza di prospettive, quanto qui sinteticamente presentato, a titolo d’introduzione per questo studio, è più o meno il ragionamento che moltissimi imprenditori fanno quando li incontro in convegni o entro in consulenza per loro. Comunque si possono ritenere queste testimonianze come decisamente diffuse e socializzabili su un gran numero d’operatori, anche per altri settori oltre alla siderurgia.
I problemi che emergono da questa sintesi sono essenzialmente due:
– le difficoltà insite in un passaggio generazionale;
– la gestione della crisi.
Entrambi gli aspetti meritano chilometri di pagine e riflessioni, senza per giunta arrivare a un punto fisso. Sicuramente va detto che quando si scopre il disinteresse dei figli nel proseguire l’avventura imprenditoriale familiare, è ormai troppo tardi per fargli cambiare prospettive. O si “inietta” (per modo di dire) nel DNA della prole la passione per la propria impresa, a partire da quando ancora a mala pena sanno capire che hanno fame, oppure la partita è persa prima ancora che inizi.
So d’essere crudo e crudele, ma d’imprenditori che mi hanno chiamato per cercare di mettere ordine nelle loro famiglie con ragazzi adolescenti e forti dissidi di coppia, negli ultimi 25 anni ne ho visti talmente tanti, che la lista sarebbe “senza fine” e la patologia è sempre una sola: il troppo impegno al lavoro ha tagliato le gambe alla trasmissione in casa, di quei valori e passioni che avrebbero tradotto ai familiari, il perché delle proprie azioni e notti insonni.
Ovviamente su questo tema si potrebbero sfoderare concetti molto più evoluti e sofisticati rispetto la propria esperienza personale, il riferimento corre a studi autorevolmente pubblicati, da grandi scienziati sia qui da noi come all’estero, ma credo che la viva testimonianza, in questo caso, conti di più. Passando al secondo tema: vendere o non vendere un’azienda, che ha poco o nulla di ordini da evadere nei prossimi mesi? Francamente il “sotto vuoto spinto” della siderurgia italiana, sperimentato a primavera sembra, per il momento, superato, in attesa d’altro.
Quindi quel -40% che si lamentava un po’ovunque, in questo autunno pare ridimensionato, anche se la crisi non è per nulla finita per cui resta da capire se stiamo per entrare in una fase del tipo, “secondo colpo” ancora tutta da capire e sperimentare.
Certamente però un paragone va fatto. Un corpo giovane e promettente che si ammala, lo lasciamo morire o lo curiamo? Il concetto è chiaro. Le aziende che hanno “dato” nei momenti giusti di mercato, a volte “prendono”, se la congiuntura lo dovesse richiede.
I soldi messi da parte nel corso degli anni, certamente rappresentano il tesoro di famiglia, però va messo in bilancio che una parte di questi verrà reinvestita in azienda, perché questa è la vita. Del resto una bella festa di matrimonio per i figli, che rappresenta un notevole esborso per qualcosa che è sostanzialmente improduttivo, non è forse un re-investimento per un momento della vita che si ricorderà per sempre? Ecco che il valore della moneta non è limitato al solo guadagno, ma alla partecipazione per la vita e l’azienda è vita!
Quindi le imprese sono persone (giuridiche) che si ammalano, guariscono, corrono, producono. Il paragone sarà anche superficiale e quindi semplicistico, ma a volte dobbiamo tornare a dei valori di fondo, senza i quali ci perdiamo in astrusi concetti. Se l’azienda di famiglia è parte di questa comunità d’affetti, va curata come se stesse male un figlio.
Infine discutiamo di mancanza di prospettive. Qui è vero i tempi sono bruscamente cambiati; la crisi ha tolto una prospettiva generica, più o meno valida per tutti per assegnarne “ad personam”nuovi scenari in cui battersi.
Il futuro non è più per team di lavoro ma lo si costruisce, oggi, azienda per azienda. E’ quanto si impara studiando la crisi del sistema dei distretti in Italia. Lo stesso distretto industriale, che prima rappresentava una catapulta per le imprese, oggi (ovvero in questi mesi) diventa una trappola per chi “non fa da sé”
Quindi la ricerca di prospettive, che non sia quella di prendere la valigetta e andare a vendere, aprendo nuovi mercati è grigia e sarà ancora più dura, laddove si pretende di vedere dalla sola propria scrivania, il futuro.
Conclusioni: la crisi non arriva mai per caso e d’improvviso, è sempre il risultato di un lento deterioramento (distrattamente voluto) sia nel passaggio generazionale come nelle istruzioni per l’uso, finalizzate alla resistenza in momenti difficili. Questioni insite nel danno da carenza di prospettive.