Critica alla Confindustria nei suoi rapporti redatti dai diversi uffici studi. Amo analizzare questi rapporti quando posso consultarli perchè sono riservati ai soli iscritti. Ovviamente gli iscritti sono le imprese che pagano diversi soldi all’anno. Una medio-piccola impresa spende anche 3mila euro annui per far parte della Confindustria.
La visione che nutro di Confindustria non è quella che esiste. Immagino una struttura molto più snella rispetto all’attuale con costi infinitamente più contenuti e meno personale. Del resto l’andamento e i successi dell’economia nazionale non giustificano un “Ministero” come invece attualmente è la Confindustria.
A una struttura elefantiaca, con ampi palazzi e sedi in ogni provincia (ce ne sono 110 in Italia) vedo realtà locali ridotte a una vetrina sulla strada. Il modello che ho in mente sono gli uffici reclutamento delle Forze Armate americane distribuiti per la Nazione. All’interno di queste agenzie l’accesso a servizi centralizzati a carattere nazionale.
La centralizzazione del servizio non vuol dire che fisicamente gli specialisti devono trovarsi a Roma!
Perchè centralizzare qualcosa che oggi è periferico?
Studiando i diversi rapporti della Confindustria, emerge la povertà informativa del documento. Ad esempio, nelle prime pagine si fa ampio riferimento all’ottimismo/pessimismo degli operatori locali. Sulla base di questo “sentimento” si costruiscono le fasi successive dell’analisi che viene confrontata su base Regionale.
Ma no! ecco la critica alla Confindustria! (anche su questo aspetto)
Da un organismo che viene pagato mediamente 3mila euro ad azienda (le imprese italiane erano 4,5 milioni nel gennaio 2020 e non tutte sono iscritte) ci si aspetta “il verbo”.
L’arte del capire cosa stia accadendo non parte dagli umori di chi vogliamo formare e indirizzare! Siamo noi formatori che, studiando ogni giorno ci facciamo delle idee che revisioniamo non solo 24 volte al giorno ma 48! (è un modo di dire).
Manca un “formatore” in Confindustria che plasmi l’idea di un imprenditore che non abbiamo. L’Italia è a corto di IMPRENDITORI. Non è un imprenditore l’albergatore, il ristoratore, il barista e neppure è imprenditore quel 9% d’imprese che non vogliono l’utile. Il 75% delle imprese italiane è nel settore servizi.
L’imprenditore non è uno “dei servizi” o che non è capace di fare utile (Onlus e terzo settore). L’imprenditore è uno che produce. In Italia solo il 16% è veramente imprenditore. Gli umori degli imprenditori non vanno ascoltati, ma formati. Un concetto che manca in Confindustria.