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Critica ai corsi in lingua straniera presso i nostri atenei

by Giovanni Carlini
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Critica ai corsi in lingua straniera, specificatamente in inglese presso gli atenei italiani; è moda!

Per far cassa e attirare (giustamente) più iscritti, le Università italiane hanno iniziato un massiccio spostamento dei corsi regolari in lingua italiana a straniera.

Questa migrazione rappresenta un miglioramento ai fini della maturazione di nostri ragazzi che costano (dall’asilo alla laurea) 6.500 euro l’uno all’anno?

Valutando gli effetti visibili al momento, non è possibile dare un parere positivo all’uso della lingua straniera nei corsi di laurea italiani.

La critica è semplice.

A livello di sconto, sul piano dei contenuti formativi, i corsi in lingua straniera riducono i concetti per favorire l’allievo nel disagio linguistico.

Si configura in questo modo un corso di laurea B o meglio definibile a cultura incompleta.

Non è finita. Oltre allo sconto sui contenuti che rende gli allievi impreparati sulle diverse tematiche ai fini della risoluzione dei problemi nel mondo concreto e lavorativo c’è un altro aspetto.

Il linguaggio è memoria e capacità di comprensione dei fatti della vita.

Per approfondire una frase così semplice serve un approfondimento concettuale.

Uno studioso russo degli anni 30 scrisse un libro dal titolo PENSIERO E LINGUAGGIO.

Il messaggio di Vygotskij, giunto nel nostro Paese appena nel 1990 nei “Manuali di Laterza”, è semplice: il linguaggio permea la capacità di comprensione della persona.

Un umano capisce ciò che vede e sente; solo successivamente giunge ad elaborare l’informazione producendo a sua volta idee successive in un dialogo ideale con la cosa-idea (da qui il dramma della sordità e cecità). 

L’uso, o meglio l’abuso del linguaggio non nazionale (non natale, non familiare) obbligando la persona alla traduzione, riduce la portata della comprensione.

Questo meccanismo di riduzione di comprensione si concretizza nel limitato tempo d’elaborazione dell’informazione.

Una prassi di questo tipo, diffusa a livello nazionale, induce il cittadino a un’assuefazione e accettazione passiva e “per scontato” dei termini.

Il passaggio successivo derivante dall’uso di parole di cui spesso non si conosce il termine (vedi MES etc..) è squisitamente politico ralativo a governi nazionali non votati dall’elettorato.

Quest’abuso costituzionale (vedi il Mattarella e il Napolitano e i loro diversi colpi di stato in bianco) rappresentano una semplice conseguenza per una popolazione distratta da parole che non capisce.

Tutto ciò indica il perdurare dell’anomalia italiana, nel panorama delle democrazie occidentali, in particolare dal 2001 ad oggi.

La critica all’uso.abuso della lingua straniera in quella nazionale o peggio nei corsi di formazione è così spiegata.

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2 comments

Rosaria Di Bona 15 Dicembre 2019 - 18:47

L’ uso di termini stranieri, soprattutto anglosassoni, è l’ ossessione degli esterofili, un uso maniacale, tipico di coloro che soffrono del complesso di inferiorità culturale e intendono compensarla, adottando termini inglesi, in sostituzione di parole di uso comune nella nostra lingua. Un fenomeno pesante, indigesto che, purtroppo, continua a diffondersi e che, a mio parere, va visto come una forma di autodistruzione del proprio patrimonio linguistico, culturale e anche politico. I forestierismi son sempre esistiti e hanno rappresentato in passato un rapporto di forza tra le nazioni, ma quello di oggi è un abuso deleterio cui bisognerebbe porre un freno.Personalmente, vedo in questa consuetudine non solo una sorta di servilismo culturale e politico, ma anche un tentativo subdolo di trasformare la semantica degli stessi concetti. Questo accade soprattutto a livello istituzionale, quando, per nascondere al popolo le reali intenzioni del governo, la chiarezza diventa opzionale e si trasforma in pura tecnica quella che invece è una scelta prettamente politica. Ciò al fine di rendere più appetibili concetti poco gradevoli.Si pensi a quell’ anglicismo governativo che ha fatto tanto discutere e suscitato tante polemiche a livello di opposizione parlamentare: la ” STEPCHILD ADOPTION “, locuzione usata dalla Cirinnà nella legge a sua firma sui diritti civili, al posto di ” Adozione del figlio del partner. “.Ma, pur essendo Stepchild una parola del lessico inglese comune, per la perversa legislatrice si tratterebbe di un istituto del diritto anglosassone, quindi di un termine specialistico che indica un concetto specifico. E tutto il suo girarci intorno,, per giustificare una vera e propria oscenità, per non dire che il figlio di cui si fa menzione è in effetti il ” figliastro “, ma detto in inglese,gni connotazione negativa scompare. Gli esempi sono innumerevoli e tutte le leggi italiane, scritte dal 2000 in poi contengono termini ed espressioni inglesi che mortificano la chiarezza di un testo, rendendolo poco intellegibile soprattutto a chi non conosce quella lingua.Con l’ uso smodato degli anglicismi e di altri termini stranieri, la lingua italiana rischia di imbastardirsi, propriuo come un popolo, quando viene sopraffatto e sostituito da un altro, dando origine a una società meticcia e il riferimento all’ immigrazione non è casuale, perchè tutto gira nell’ orbita della globalizzazione per cui, tutto si muove, tutto cambia, tutto si trasforma, secondo una logica assurda e ciò che oggi è non lo sarà domani. Ma questa è una colpa di cui i responsabili si macchieranno, di fronte alla storia.

Giovanni Carlini 17 Dicembre 2019 - 9:21

un bellissimo commento – grazie, non posso che condividere

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