Cosa possiamo imparare dalla crisi di finanza pubblica statunitense?
di Giovanni Carlini
Il nostro paese è immerso nei suoi problemi politici e istituzionali, nonostante il mondo proceda con avvenimenti straordinari di grande rilevanza ancora da capire. Nel dettaglio, cosa c’è da imparare dall’attuale crisi fiscale statunitense?
Al di là delle resistenze tra un partito e l’altro (in America, fortunatamente solo due) che dimostra come l’attuale presidenza, nonostante al secondo mandato, resti particolarmente contrastata, dobbiamo prendere atto che gli Stati Uniti d’America si sono bloccati. Sgombrando il campo dalle motivazioni congiunturali, una possibile interpretazione si rivolge verso un’errata applicazione del concetto di globalizzazione. In pratica se l’idea è condivisibile, non lo sono i sistemi come è stata applicata.
L’eccesso di delocalizzazione ha prodotto fenomeni acuti di desertificazione industriale con vantaggio economico di pochi e vasti strati di popolazione priva di lavoro.
La disoccupazione è anche un problema nazionale, perché chi non riceve reddito non paga le tasse e pesa sulla finanza pubblica (doppio danno).
Troppi disoccupati non solo mettono in discussione la democrazia (va sempre ricordato quanto accadde alla Repubblica di Weimar) ma disarticolano sia il sistema d’assistenza sociale (welfare state) che gli equilibri di finanza pubblica.
Si può affermare che è la disoccupazione (14 milioni) l’epicentro della crisi fiscale statunitense? Come in tutte le cause non ne esiste una principale, ma un insieme che spinge verso una direzione.
Sicuramente c’è uno scarso interesse istituzionale (in tutto l’Occidente) sul fenomeno della disoccupazione, dove sicuramente nei proclami è richiamata in agenda, ma ai fini pratici non sono stati ancora posti in essere quei meccanismi di “richiamo” delle precedenti attività già delocalizzate.
Oggettivamente da marzo 2012 gli Stati Uniti sono impegnati nel reshoring, ovvero il rientro in Patria d’imprese prima delocalizzate in Cina e Brasile ma la tendenza, per quanto importante, non ha ancora dispiegato i suoi effetti.
Quest’anno, viaggiando in America, a differenza dal passato c’è una fortissima valenza sul made in America, quindi un grande richiamo all’industria nazionale indirizzando gli acquirenti. In Europa si resta ancora a livello di studio con l’agenda Tajani, puntando su un recupero del manifatturiero al 20% delle merci prodotte. Come sempre, se si vogliono scoprire le nuove tendenze del mondo, serve andare e studiare oltreoceano. Tirando le fila del ragionamento, cosa emerge?
a) è già in atto, negli Stati Uniti, un robusto ridimensionamento dei processi di globalizzazione, rivedendo specificatamente la delocalizzazione, ma la tendenza va rinforzata e accelerata. Laddove la Cina voglia crescere, non lo faccia a spese dei disoccupati del mondo Occidentale, ma sviluppi il suo mercato interno, contraddicendo così la sua stessa natura. Ecco il nodo concettuale. Può esistere un mercato capitalistico in una dittatura comunista, che non prevede la classe media? Oggi in Cina ci sono sia i super ricchi che gente normale, ma la classe media, intesa come centro di propulsione d’idee e consumi non è stata ancora pensata. La contraddizione cinese è tutta qui;
b) in Europa queste idee sono solo sulla carta, al prezzo di un 40% di disoccupazione giovanile in Italia e 30% e 50% per l’intera popolazione in Spagna e Grecia. Cifre importanti sono presenti in Portogallo e Irlanda. Un malessere sociale così acuto, quando avrà ricadute sugli assetti istituzionali, sarà drammatico se nella sola Germania, che è il più diretto beneficiario della moneta unica il partito anti euro sfiora il 5% dell’elettorato;
c) agli inizi della globalizzazione economica, 13 anni fa, appunto dal 2000 in poi, il concetto di benessere fu per un basso costo delle merci (eravamo ricchi e volevamo comprare-consumare di più). Oggi ci si rende conto che basteranno anche 19 euro per andare a Parigi in aereo, ma se manca il lavoro e quindi un reddito adeguato, a cosa servono prezzi concorrenziali?
d) non era chiaro, in passato come invece oggi, la diretta connessione tra:
– disoccupazione e tasse pagate in meno con consequenziale calo dei consumi;
– la risposta delle imprese che fatturano di meno a parità di costi è per insoluti e successivamente il fallimento;
– agli insoluti e alle chiusure d’attività entra in crisi il sistema bancario;
– con la chiusura delle attività economiche c’è la riduzione del gettito fiscale e il collasso dello Stato.
Ecco che la “vittima” finale della sua stessa distrazione (non aver diretto o indirizzato i fenomeni di delocalizzazione e vendita selvaggia di know how all’estero) è lo Stato Nazionale. Negli Usa i fondi per la recente riforma sanitaria sono stati stroncati, azzerando così il cavallo di battaglia dell’attuale presidente e in Europa è iniziata la ritirata dello stato assistenziale, ma sono tutti passaggi che maturano troppo tardi. Ciò che preoccupa è la tenuta della democrazia, di cui nessun commentatore si è interessato, finché non sarà troppo tardi;
e) nella crisi più totale, serve un uomo nuovo che consumi di meno e produca di più (torniamo agli anni Sessanta) quindi i nostri stessi comportamenti privati e professionali vanno rivisti per ridefinire stili, atteggiamenti, idee, tolleranza, visuali e concetti alla luce delle mutate prospettive per ricostruire una società del benessere in crisi, rispetto il modello adottato sino ad ora, che ha fallito.
Auguriamoci buon lavoro, a livello interiore, come persone che hanno troppo osato con ali di cera, che il sole inesorabilmente ha sciolto e siamo piombati a terra!