Come si esce fuori da questa crisi? E’ una frase ricorrente ed è sempre la stessa!
Non per spezzare una lancia per chi non crede nella gravità della crisi economica-finanziaria e sociale in corso, ma in effetti le difficoltà sono diverse tra quelle che sta affrontando l’Italia e ciò che accade sia in Gran Bretagna che negli USA. Perché questo?
Il fatto che in Italia la crisi sia meno dura, rispetto agli Stati Uniti e la Gran Bretagna, non deve consolare nessuno, anzi! Prima di “sentirsi fuori pericolo” è bene sapere che l’indice di fallimenti delle imprese italiane è su valori “fuori misura”.
BOX – Gli effetti reali della crisi
La recessione, unita alla stretta sul credito attuata dalle banche, ha prodotto un aumento di fallimenti (fonte Unioncamere) nell’ordine del + 47,3% a Milano e del + 563,5% a Napoli.
Sono dati che lasciano pensare e giustificano quanto si vocifera per uno stato di crisi che interessa il 70% delle imprese del Nord Italia.
Il quadro diventa più “grigio” quando l’analisi si estende anche ad altre città del nord come: Torino + 39,6% quindi Brescia + 271,4% Bologna + 230,5%
Ovviamente questi risultati non tengono ancora in considerazione le domande di fallimento, che pendono nei diversi tribunali, ma solo delle procedure che sono state concluse. Con ciò allargando l’analisi, si nota a Monza un +25% rispetto alla tendenza 2008, Genova con un ulteriore +35% e comunque in Italia un +8%.
Al netto dell’impennata di fallimenti in Italia, c’è però una differenza di gravità tra modelli economici di sviluppo in Europa e nel mondo.
I diversi gradi di criticità, vanno spiegati per trovare motivi di rilancio, “scottandoci con le mani degli altri”.
La globalizzazione ha fallito perché spinta ai suoi estremi.
Infatti ciò che è entrato in crisi (oltre agli aspetti sociali) non è tanto il sistema economico, quanto quello finanziario.
Se volessimo trovare una paternità alla crisi, dovremmo chiamare in causa in primo luogo la speculazione, quindi le banche e pertanto il sistema di “finanza creativa”, che rappresenta l’anima stessa del fenomeno globalizzante.
Subito dopo segue la ben più cruciale e drammatica/autolesionista rinuncia alla produzione industriale diretta.
Procedendo per gradi, va considerato che gli speculatori non sono certo dei marziani; al contrario siamo noi! Avendo perso noi stessi parte degli assetti morali, ci siamo lasciati andare speculando oltre misura, commettendo quel peccato che ora un’intera società deve pagare. Al di là dei moralismi, chi ha deliberamene rinunciato alla produzione, quale atto d’azione industriale, oggi è nella crisi peggiore. Aver delocalizzato e concentrato la “produttività” nel solo settore finanziario e dei servizi, ha prodotto uno spostamento di ricchezza reale nei paesi emergenti, depauperando il proprio.
Ecco che in questa chiave sono da leggere i richiami a una nuova moralità nel lavoro, da parte del recente presidente statunitense (meno bonus e più responsabilità nella gestione d’impresa) e il forte rialzo del protezionismo in tutte le nazioni del mondo.
Cos’è il protezionismo?
Significa riprendersi le produzioni prima delocalizzate magari in Cina, India o nei paesi dell’Est d’Europa, applicando dei dazi; in questo modo si aiuta (protegge) la rinascita dell’industria nazionale.
Pertanto come se ne esce fuori dalla crisi? La risposta è: produzione! Bisogna recuperare il “made in Italy”, riappropriarci delle nostre imprese, posti di lavoro e cultura nella gestione d’azienda a scapito delle scorciatoie rappresentate dai giochi di speculazione e di finanza.
In questo senso, sul piano commerciale, oggi gli acquirenti apprezzano di più il “made nostrano” che quello tristemente noto a prezzo da realizzo.
Non va dimenticato che il 75% della produzione (in senso lato) è sempre destinato al mercato interno.
Calcare la mano sull’export è stato un errore e lo è stato anche spostare la realizzazione dei manufatti dall’Italia, solo per lucrare sul prezzo del lavoro e qualche agevolazione. L’errore consiste nell’aver trascurato gli aspetti sociologici di gradimento dei prodotti da parte dell’utenza, che oggi rigetta “bassissima qualità (a volte anche pericolosa) con bassi prezzi”.
Gestire un’impresa è anche una questione di cultura.