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La trasformazione del comportamento sotto l’effetto del dolore

by Giovanni Carlini
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Studi sul Parkinson: la trasformazione del comportamento sotto l’effetto del dolore

studi di Giovanni Carlini nell’ambito della teoria sociologica sul Prigioniero da Parkinson riconducibili alla più ampia sociologia del dolore (pain sociology)

La trasformazione del comportamento sotto l’effetto del dolore

Per quanto il dolore sia parte integrante della vita umana, con effetti diretti nella modificazione del comportamento, non è ancora stato studiato sotto il punto di vista sociologico, in particolare nei suoi effetti familiari e sociali. Nelle università americane indubbiamente è oggetto di studio restando però nei termini clinici e psicologici, mai relazionali che sarebbero quelli socialmente più rilevanti. Cos’avviene nelle coppie o comunque nei rapporti sociali di lungo termine, quando il dolore ha il sopravvento sulla mente delle persone?

Il dolore

Il dolore, la sofferenza, il panico o più semplicemente la sola paura, sono manifestazioni di conservazione dello spirito e del corpo per difendere la persona. Solitamente attraverso il dolore, si accende “una spia” che segnala l’urgenza d’allontanarsi o sottrarsi da una certa condizione di pericolo. Questo tipo di sofferenza rientra nel controllo della mente consentendo all’uomo e alla donna di poter ancora scegliere.

Il tipo di dolore oggetto di questo studio però, non è quello sotto il controllo della sensibilità umana, ma al contrario, quando è sofferto per effetto di malattie o traumi ai quali non c’è stata scelta. In questi casi non resta che sopportare, “accettando” la sofferenza in attesa di guarire o nella speranza che evolva il proprio stato clinico. Quel tipo di dolore che si sopporta, anche perché imposto dalla sorte della vita, sviluppandosi su un medio lungo periodo, concorre alla modifica del comportamento umano, ridefinendo l’intera struttura della relazione sociale, affettiva e familiare in senso solitamente peggiorativo.

Le diverse risposte al dolore in base al genere femminile o maschile

Per quante personalità esistono nella natura umana, (sono infinite) tante sono le possibili risposte di un uomo e di una donna a un “ingiusto” stato di sofferenza causato da un evento non voluto e frutto del caso, quindi si parla di malattia o di un incidente.

In linea di massima, dagli studi svolti a favore dei prigionieri da Parkinson in Italia (come sono considerati i malati in base alla nota teoria sociologica “Il prigioniero da Parkinson”) si nota un’importante divaricazione di genere nella sopportazione al dolore, da cui emergono conseguenze diverse. Detto in altri termini, i maschi manifestano specifiche forme di reazione al dolore rispetto quelle femminili che restano in genere “più semplici” da gestire per il partner. Infatti mentre il dolore maschile va accudito, trovandosi particolarmente simile a quello di un bimbo bisognoso di affetto, al contrario, nella sofferenza femminile, trova posto l’intera gamma di mancate rivendicazioni sociali che la donna ritiene, a torto o a ragione, d’aver subito. In altre parole mentre nelle donne assistiamo a una “rivoluzione” causata dalla sofferenza, questo non avviene nei maschi. Perché?

La sofferenza nel dolore tradotta al femminile

Le donne hanno la maggiore capacità di resistenza alla sofferenza dell’intero genere umano. Probabilmente, mi si permetta questa considerazione a sfondo religioso e mistico, è per questo motivo che Dio ha assegnato al genere femminile il compito dare continuità alla specie nella storia. Da un’attitudine così intensa alla sofferenza, per le donne, come se fosse “una marcia in più”, emergono in ambito di sociologia della sessualità, segnali per una particolare predisposizione femminile nel provare piacere verso particolari e delicate forme di dolore usuali nel rapporto affettivo e sessuale. Si definisce in questo mondo un’area d’interregno, nel comportamento tradizionale delle donne, dove il dolore non è sempre e solo un male, ma va soggetto a interpretazione. Uno stato di “accesso alla sofferenza” di questo tipo, consente una soglia del dolore più elevata nelle donne, rispetto gli uomini, anche verso quella sofferenza non scelta perché imposta dai casi della vita e dalle malattie. Assodato questo primo passaggio, che dovrebbe favorevolmente ritenere il genere femminile più forte verso la sofferenza, si possono considerare diverse casistiche di reazione al dolore così classificabili:

  1. il silenzio. Si tratta di una fase estremamente pericolosa per la qualità della vita di una coppia. Nel chiassoso silenzio della sofferenza, la donna si vergogna dei suoi nuovi limiti che cela al partner senza aiutarlo a capire o consentirgli di reagire. Non solo, avviene anche una severa rimostranza della moglie verso il marito, perchè “non ha capito” come si sarebbe dovuto comportare nella nuova situazione. Si entra, con questo comportamento, in un labirinto di mancate attese per un aiuto che non arriva generando nervosismo e astio. In casi di questo tipo, che sono la netta maggioranza (41% delle coppie studiate) l’unico in grado di poter gestire la frattura comportamentale è solo l’uomo, che andrebbe però educato nel nuovo ruolo. Il problema a questo punto è: chi educa i maschi nell’evoluzione della coppia? A questo ruolo dovrebbero rispondere le donne, ma ciò non avviene quasi a temere la vecchiaia o quel momento della vita per lo sfiorire del fascino di donna. In questo modo, applicando una “prassi dello struzzo” che non vede il futuro per evitarlo, i partner non ricevono i rudimenti necessari, nel perdurare della crisi che sarebbero utili a fronteggiare quelle fasi della vita dove il dolore ha la sua importanza. La prassi più corretta sarebbe, nella fase nascente del dolore, prenderne atto e insieme al partner capire le giuste reazioni da gestire insieme, pur se questo atteggiamento potrebbe essere definibile “gestione logica della crisi”, ovvero un qualcosa di non umano e non facilmente realizzabile anche se estremamente necessario. Il motivo per cui questo studio nasce è per cercare d’offrire a chi soffre delle possibilità (non facili) per provare-provocare meno conseguenze al dolore di lungo periodo.
  2. la reazione sessuale e affettiva. Ci sono non pochi casi, (il 8% del campione) dove la mancata risposta del partner alla sofferenza della donna, provoca o la rottura del rapporto o un’importante devianza sessuale, mai verificatesi negli anni precedenti. Nel dettaglio, per quanto riguarda la crisi e ipotetica conclusione del rapporto, l’incapacità tutta maschile d’aiutare e comprendere il nuovo disagio della compagna è tradotto dalla donna come un tradimento (l’ultimo sopportabile) da cui il bisogno di liberazione. In realtà la sofferenza da dolore fisico è solo l’ultimo atto di una costante degenerazione della coppia, che a questo punto esplode conteggiando ogni precedente torto reale o supposto sia stato commesso. Sostanzialmente la sofferenza non è la vera causa della conclusione del rapporto di coppia, ma un evento dei tanti che si sommano tra loro creando artificialmente un’apparente situazione senza scampo. Certamente di fronte al muro del dolore la sensazione è quella d’aver esaurito tutte le possibilità. In questo caso la forte sofferenza, indotta da un’importante malattia come il Parkinson, l’Alzheimer, tumore, leucemia etc.. chiudono lo scenario del futuro aprendo un impellente bisogno di raccogliere più briciole di vita residua possibile e subito, da arraffare frettolosamente, senza più declinare il comportamento alla pazienza come fatto negli anni precedenti. Il dolore, purtroppo porta alla fretta in ogni cosa, accelerando le conseguenze di ogni piccola frattura possibile (quale rapporto non ha conti in sospeso?). In pratica si entra in forma conflittuale per una fase definibile di “fine vita”. Sarebbe saggio conoscere queste dinamiche preparandosi per tempo, sapendo che la fase del dolore, in una relazione di coppia, comunque giungerà in ogni caso e questo significa non prestare il fianco a cattive e volute negatività. Non chiudere i conti in sospeso significa permettere eventi che possono indurre una donna verso una selvaggia reazione sessuale, che a volte è anche applicata verso più uomini pur nello stesso giorno. Ci sono casi che segnalano un bisogno sessuale estremo, concretizzato in ben 3 rapporti sessuali avuti lo stesso giorno, tutti consensuali, con altrettanti uomini, il tutto con la ferma intenzione d’arraffare ogni quota di vita possibile senza con questo essere considerabili delle ninfomani. In realtà, le donne che hanno riferito reazioni di questo tipo, imputano la responsabilità ai farmaci assunti, il che sarà parzialmente vero, non trascurando una specifica indole al disfattismo. Sono i casi più difficili da gestire, perché utilizzano il dolore per una resa dei conti interna alla coppia, rendendo necessaria una specifica assistenza. Concludendo, accade spesso, nelle coppie che stanno soffrendo per dolore fisico prolungato nel tempo, che si prendono delle decisioni drammatiche e definitive, sotto la visione parziale e non completa del momento contingente, quasi come per effetto di una droga o alcool;
  3. l’attivismo. Tutto sommato è assimilabile al silenzio al contrario, riferendosi alla prima tipologia di risposta femminile al dolore qui studiata. Riguarda il 36% del campione e comporta un attivismo esasperato su ogni cosa possibile, soprattutto se esterna alla vita familiare. Si esprime sotto forma di volontariato, nella parrocchia, gruppi di sostegno a ogni possibile immaginabile esigenza reale o inventata, purchè impegni una mente disperata e lacerata sia dal dolore, che soprattutto dall’assenza di prospettive. Anche in questo caso la soluzione risiede solo in un uomo, il partner che sappia accogliere e abbracciare una compagna confusa. Purtroppo il problema resta lo stesso; chi educa gli uomini nel gestire la crisi della vita?
  4. un grande bisogno di feeling. Il vuoto che crea il dolore scavando una voragine tra coniugi, in alcuni casi (15% del campione) viene supplito da una “voce amica”, dal tocco di una mano che rinforza, dal feeling che si istaura tra la donna e “altri-altre” senza che questo necessariamente sfoci in aspetti emotivi, affettivi o sessuali a titolo consolatorio. Si tratta della riscoperta, nel senso classico, del concetto di amicizia pura, quella asettica e platonica, includendo anche fantasie ma che restano tali. In questo caso la terza persona o coppia, triangola la relazione affettiva allargandola sperando di non generare gelosie distruttive. Gestendo la crisi, il coniuge dovrebbe “lasciar correre” il bisogno sociale della sua compagna, che non è più attivismo, ma ricerca del “vero” e dei valori più intensi dell’esistenza. Nonostante la sofferenza subita, la donna è in grado di rientrare nel rapporto, storicamente vissuto, in forma più completa, appagata e ricca nello spessore del pensiero e delle emozioni, portando nuova fertilità emotiva, grazie alla forza di una vera e sincera amicizia.

La sofferenza nel dolore tradotta al maschile

Si tratta di un dolore “facilmente” gestibile dalla donna, partner, che riacquista la sua natura materna curando il suo uomo malato, ridotto al ruolo infantile di debolezza. Per quanto queste parole possano apparire ciniche, in realtà hanno lo scopo d’essere particolarmente dirette nella gestione del dolore. Nel caso di un uomo, l’essenza nella gestione del male è concentrata nell’accudire con amorevole pazienza i suoi bisogni e dubbi, qualcosa che al genere femminile risulta sostanzialmente naturale.

Si può affermare che il dolore maschile sia più “facile” da gestire rispetto quello femminile? Mentre nulla cambia sul piano “chimico” del dolore e della sua incidenza nella carne e spirito umano tra uomo e donna, la gestibilità spirituale della sofferenza è completamente diversa (opposta) tra un genere e l’altro. La compagna/moglie ha un immenso potere per accudire ogni forma di dolore fisico maschile, a patto che non ci siano importanti fratture da far valere in senso vendicativo nel rapporto.

La sofferenza per single e separati

Si tratta del modo peggiore per affrontare la “stagione del dolore” che contraddistingue tutte le esistenze umane. Restare soli, separati, divorziati o peggio single, di fronte all’appuntamento con la decadenza della salute, significa volersi fare veramente del male. Inequivocabilmente la sofferenza, sia per una donna che un uomo, vissuta nello status di single è infinitamente peggiore, più lunga e devastante, rispetto al normale standard sociale che dovrebbe considerare le persone unite da un rapporto d’amicizia, convivenza o coniugale. Comunque, pur essendo single, un adulto per gestire il momento della sofferenza dovrebbe costruire un’intensa relazione virtuale e sociale con il maggior numero possibile di persone, compensando la solitudine esistenziale che si è inflitto. Ci sono casi di successo per single sia femminili come maschili, pur rappresentando un arrangiamento.

Va comunque segnalata, anche in quest’ambito, come la crisi della personalità moderna si esprima in una grave incapacità di relazione sociale e affettiva, le cui ricadute non si limitano al nervosismo di base nei rapporti tra adulti o alle separazioni tra coppie (al 60% se include anche quelle di fatto oltre le coniugate che si attestano al 42%) ma colpiscono poi l’essenza della vita riducendone la qualità, soprattutto nella sua fascia alta, intercettando l’età del dolore. Non si vuole propagandare la vita di coppia solo in funzione d’assistenza nella vecchiaia, ma questo aiutarsi fino in fondo sta scritto nel cuore degli umani e nella civiltà delle relazioni umane degli ultimi 50mila anni, non sconfessabili dai disorientamenti e confusione di questi decenni di società globalizzata.

Conclusione

La fase del dolore in una vita di coppia rappresenta un passaggio inevitabile che va preparato per tempo educandosi uno all’altro. Presentarsi impreparati o con gravi fratture emotive e sentimentali “all’appuntamento del dolore”, vuol dire esporsi al concreto rischio di soffrire ancora di più. Si apre in questo modo non solo una riflessione per la sociologia del dolore, ma una pedagogia del dolore, ancora sconosciuta nella nostra civiltà.

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