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Il prigioniero da Parkinson dev’essere in coppia per curarsi?

by Giovanni Carlini
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Un lettore invia una email: bello quello che scrive ma io sono divorziato.

Come applico i concetti della teoria sociologica essendo affetto dal morbo?

Detto in altri termini il prigioniero da Parkinson dev’essere in coppia per curarsi?

Un Signore scrive: sono affetto dal morbo e mi sento concettualmente anch’io una persona nella condizione de il prigioniero da Parkinson però ho un problema, sono divorziato. Ho capito che la teoria sociologica per il Parkinson, che lei propone, si basa molto sulla fisicità, rischiando con questo d’urtare le menti più disturbate e retrograde di questo ambiente, ma io che sono divorziato come faccio?

Gentile Signore, grazie per aver scritto arricchendo in questo modo la ricerca. E’ vero, il prigioniero da Parkinson è un personaggio che gode di una relazione stabile, nella quale interagire EDUCANDOSI L’UNO CON L’ALTRO alle nuove specifiche funzionali.

Questa rivisitazione della fisicità di coppia è fonte di una marea (inutile) di polemiche espresse da un mondo che non è solo malato per il morbo, ma immaturo nella sua personale sensibilità. Recentemente ho letto alcuni interventi che esprimono solo disagio per essere stati messi a nudo, ma nessuno è veramente capace di tirare fuori 1 idea che tale sia! Nel mondo del Parkinson ho osservato una povertà di base impressionante, con una reale nudità nella capacità d’elaborazione di un pensiero e d’idee a livello ufficiale. Sostanzialmente si conferma l’approccio iniziale: la ferrea volontà di volersi considerare malati per restare tali.

Nonostante questo deserto particolarmente arido, debbo confessare che ho incontrato delle persone meravigliose con le quali per i prossimi anni manterrò il piacere di un ragionamento aperto. Persone profonde e particolarmente motivate, in cui la dignità si unisce alla personalità al netto della resistenza militarizzata al morbo: devi veri personaggi nella condizione de il prigioniero da Parkinson. Penso a Torino, Udine, Bologna, Venezia, Roma, dalla Puglia, personaggi che sono capaci d’EDUCARE AL LORO DOLORE PER MIGLIORARSI.

Questi grandi esempi di resistenza al morbo, restano però pochi e isolati, in un mare di gente ottenebrata, che balbetta qualche protesta indispettita da un cambio di prospettiva, aggravato dal dover fare nella fisicità affettiva di coppia un qualche cosa di cui non si ha voglia. Nei 574 contatti avuti negli ultimi mesi emerge:

1 solo contatto intellettualmente evoluto;

15 persone dotate di un’umanità così grande, da imporre ammirazione e rispetto dove la condizione de il prigioniero da Parkinson assume un vertice alla massima espressività. In questo caso si tratta di personalità già evolute di loro, dove la malattia le ha poste in trincea senza intaccare le loro capacità di conservarsi umani;

275 persone si sono scandalizzate, farfugliando qualcosa più scocciate di non capire che altro. Questo dipende da un problema ben preciso dove il malato (non più il prigioniero) vuole essere compatito e aiutato per guarire o modificare il suo status. Il problema deriva dall’aver proposto delle novità comportamentali a un soggetto che non vuole dover fare qualcosa per cambiare la sua condizione. In pratica questo tipo di malato è come un ponte a cui mancano metà delle arcate per raggiungere la successiva sponda.

283 persone interessate, stupite, bloccate in attesa di conferme. Questa terra di mezzo è pericolosa perchè non sono malati, ma neppure prigionieri. Persone che aspettano. Cosa aspettano? Forse attendono che “l’ufficiosità” si faccia concretezza, ma è questo il punto! L’intero apparato ufficiale del Parkinson italiano è bloccato nella conservazione di uno status di malato afflitto. L’ufficiosità e chi dirige questi mezzi di comunicazione (chi dirige non chi gestisce che spesso è lasciato abbandonato) è per malati che tali devono restare, difendendo non so quali rendite immerse nell’immobilismo. In pratica prede incastrate in una ragnatela in attesa dell’inesorabile morte.

Quindi c’è sia una maggioranza fertile ma immobile, quindi una minoranza che si sente offesa nel momento in cui è inviata a reagire e infine una pattuglia d’illuminati.

Detto questo nei termini di un quadro generale che richiede un sintesi, per quanto discutibile possa essere, veniamo al punto. Un persona nella condizione de il prigioniero di Parkinson per reagire al morbo in forme militarizzate dev’essere essere in coppia o godere di una relazione stabile? Preferibilmente si, ma nel testo “sugli snodi comportamentali” è stato già scritto che per reagire è importante assumere un certo comportamento, compatibile alla natura caratteriale, che disciplini la voglia di restare mentalmente vivi e capaci di CREARE PENSIERO EVOLUTO. NON SERVE LA FISICITÀ’ (che resta la via più naturale e semplice) PER REAGIRE IN FORMA DISCIPLINATA E MILITARIZZATA AL MORBO, CREANDO PENSIERO E SENTIMENTI NUOVI, è sufficiente un vero impegno perseguito con costanza, affinché ingentilisca la personalità de il prigioniero da Parkinson per accompagnarlo in una migliore qualità esistenziale. Essere separati, vedovi o quant’altro, non cambia la sostanza. Certo addolora un quadro di solitudine esistenziale che non modifica la capacità di reagire.

Quanto qui scritto è a beneficio di tutti: che capiscano oppure no.

Appunti di sociologia per il Parkinson – prof. Giovanni Carlini

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