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Il prigioniero da Parkinson: l’ostinazione a ritenersi malati

by Giovanni Carlini
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QUESTA VERSIONE DEL TESTO E’ STATA APPOSITAMENTE MODIFICATA PER CONSENTIRE UNA MIGLIORE LETTURA ALLA COMUNITA’ DEL PARKINSON

Quando sentirsi malati è un segno di riconoscimento. Il prigioniero da Parkinson nell’ostinazione a ritenersi malato.

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prigioniero da parkinson

Michael J. Fox attore di Hollywood affetto dal morbo di parkinson, che ha saputo reagire combattendolo con forza

Molte persone, che incontro in ambito di Parkinson (come già noto e scritto) mi ricordano in continuazione d’essere malate, come se potessi dimenticarlo. In realtà in un malato di Parkinson, ormai lo sa veramente tutto il mondo, come novità assoluta, vedo un prigioniero, appunto ciò che è stato felicemente definito il prigioniero da Parkinson. Perché questa divaricazione tra punti di vista, quali sono le motivazioni per cui vedo solo persone normali con problemi e non un malato nel senso peggiore del termine?

Un Signore italiano mi scrive, dopo aver letto gli studi qui pubblicati: noi ci piangiamo addosso tutti i giorni e ora se ne spunta fuori Lei che quasi quasi ci dice “alzati e cammina”.

Vediamo di capire perchè vedo solo il prigioniero da Parkinson anziché un malato!

– l’esperienza dei prigionieri americani in Vietnam è stata già accennata in altri studi e comunque attraverso le sue conseguenze di “terapia breve” del prof. Milton Erickson, ha prodotto delle novità importanti che sto applicando che sono:

a) non esiste più un malato ma un paziente, a cui va personalizzato il tratto;

b) ci sono degli snodi comportamentali tipici in ambito de il prigioniero da Parkinson che vanno considerati nella scelta del tratto da applicare per aprire un canale comunicativo;

c) dalla terapia breve vanno considerati anche aspetti di PNL – programmazione neuro linguistica (nello spostamento del focus di concentrazione de il prigioniero da Parkinson)

d) la terapia sociologica di gruppo come azione e reazione cognitiva, in una comunità virtuale o reale capace di coinvolgere tutti i una “festa permanente”. A questo scopo è stato proposto a tutti coloro che sono nella condizione de il prigioniero da Parkinson di collaborare alla formazione di un questionario con domande reali che si vorrebbe fossero poste realizzando una grande indagine nazionale (contarci e valere di più)

– oltre lo studio dell’esperienza dal Vietnam c’è un altro particolare molto importante da considerare! A poche ore di auto da dove solitamente vivo, ho avuto modo d’osservare (e studiare) per anni dei bei ragazzi e ragazze pesantemente mutilati, reduci di guerra, baciare i loro bimbi e godersi la vacanza con il partner nella città giocattolo di Las Vegas. Si tratta di persone orgogliose d’aver offerto al Paese (più specificatamente alla Patria, anche se la parola è fuori moda) un parte importante del loro corpo. Questo orgoglio non ha l’effetto di chiusura a riccio che invece ho notato nel mondo del Parkinson creando frattura sociale, al contrario si gode di apertura e voglia di vivere facendo figli, l’amore e lavorando.

Indubbiamente qualcuno potrà dire che il reduce mutilato, ha solo il corpo danneggiato e una ferrea volontà di vivere. Ebbene. Dov’e la differenza con il prigioniero da Parkinson alias malato?

Si riprende qui un concetto già esposto: la tripartizione dell’umano in corporeo, emotivo (per provare sentimenti) e cognitivo (per produrre pensiero). 3 mondi intimamente conviventi che rendono la vita sana se tutte le parti funzionano a dovere. Ma la vita non è perfetta! Capita che un 33% di questa tripartizione (il corporeo) non sia perfetto. Benvenuti nella vita reale dove poco è perfetto se non la divinità.

Gli umani, che perfetti non sono, si adattano. Piangersi addosso non risolve il problema. Ecco perchè di fronte a un malato io vedo una persona, ragiono con un uomo o una donna e ne confronto i punti di vista, mi misuro e maturo. Al massimo posso trovare un prigioniero da aiutare ad evadere. Ecco perchè vedo il prigioniero da Parkinson al posto di malati.

Per quanto semplice possa apparire questo ragionamento, certamente esprime una reazione a uno stato di dolore e malattia. La sola voglia o attitudine a reagire produce un personaggio nuovo che non ha voglia di farsi compatire ma afferma e dichiara una sua presenza, che avrà anche del limiti ma non per questo si giustifica la fine concreto di un’esistenza. C’è ancora molto da fare in ogni vita. L’amore, forse i figli, il sesso, scrivere, pensare, pubblicare, viaggiare, lavorare, sorridere, esserci, vivere, dichiarare, pensare, guardare, desiderare ………

Questi sono gli effetti della terapia sociologica nel Parkinson.

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