Il nocciolo della questione; discutendo di globalizzazione con altri studiosi emergono degli aspetti su cui riflettere
Il nocciolo in discussione è che:
a) tutti conveniamo (sia europei che statunitensi come latini e asiatici) sulla crisi del modello attuale di crescita in uso dai tardi anni Novanta fino a oggi. Detto in forma più esplicita è finita un’era, per cui ora serve riscrivere le regole;
b) ho notato negli studiosi inglesi una critica molto forte (purtroppo fondata) alla UE. Ci dicono che “noi” abbiamo pensato a costruire un’Europa sull’ottimismo senza considerare strutture e istituzioni che possano intervenire nella fase della crisi dell’unione. E’ il caso della Grecia, che dimostra palesemente l’inadeguatezza dell’Europa;
c) non è finita, sempre da fonte britannica, arriva l’affondo sulla BCE, che non è una banca centrale confrontabile alla FED statunitense, ma un accordo di principio a cui mancano gli strumenti per difendere un singolo stato dall’intera comunità;
d) condannato a essere originale ho espresso singolarmente la mia critica alla gestione delle crisi prendendo in esame la Grecia, ma con in mente l’Argentina del 2001. In entrambe le vicende (il FMI allora come la UE oggi) è stato commesso un errore chiedendo tagli alle spese e restrizioni al sociale in cambio di finanziamenti. In questa maniera si collassa lo Stato ponendo a rischio ogni denaro offerto in prestito. In realtà sarebbe stato necessario farsi carico, in cambio di riforme istituzionali, di un ampio programma di investimenti a fronte degli stessi finanziamenti. Se con i se e i ma si conclude poco, certamente laddove ci fosse stata una maggiore maturità a fronte di garanzie di riforme sociali e politiche, in Grecia, più che consegnare fondi, sarebbe stato preferibile finanziare ponti, strade, cantieri navali, centrali d’energia alternativa, edilizia etc..
e) con gli studiosi francesi c’è stato un forte attrito. Molti ricercatori ritengono ormai che il problema di fondo dell’attuale crisi, sia la carenza di posti di lavoro in Occidente quale esito della delocalizzazione. Questa situazione produce disoccupazione e di conseguenza collasso dei mercati interni occidentali. In pratica si è ecceduto nella delocalizzazione depauperando la ricchezza nazionale, il che dovrebbe comportare un ritorno a casa delle imprese che in questo momento sono in Cina, come in altri paesi se stanno producendo in quelle aree per il mercato domestico;
f) ne consegue che si distinguono due diverse concezioni di globalizzazione; una per presidiare i mercati esteri a cui vendere tecnologia e soluzioni (valida) e un’altra per produrre all’estero quanto non realizzato in patria lucrando sul differenziale del costo del lavoro (quest’ultima da considerare una sottrazione di ricchezza alla Nazione)
g) se questa distinzione tra due concezioni della delocalizzazione è valida (a cui aggiungere una ibrida che serve entrambe le posizioni) nasce una diversa cultura della tassazione aziendale, che tendenzialmente vede detassate quelle imprese che producono per il mercato interno con maestranze nazionali, ma fortemente tassate (a titolo compensatorio per il danno arrecato alla società in numero di posti di lavoro perduti) quelle aziende che producono per re-importare i beni o servizi che si trovano all’estero. Se questa azione dovesse produrre l’emigrazione delle attuali imprese già delocalizzate, il danno sociale è minimo ma impone anche l’applicazione di dazi compensativi per cui oggi (già applicato dagli americani) il dazio non è più sul solo prodotto, ma applicato su chi lo realizza (la paternità della produzione).
Ragionamenti di questo tipo, dal mondo accademico stanno passando rapidamente alle rispettive cancellerie, grazie al doppio filo tecnici-università, che oggi ha sostituito il mondo politico. Mai un politico avrebbe osato non tanto affermare, ma anche solo dichiarare qualcosa in termini di differenza di tassazione tra imprese, in base al danno sociale da delocalizzazione. Ebbene i tempi oggi sono cambiati, imponendo la considerazione sociale degli eccessi di guadagno ottenuti dalla speculazione, insita nella delocalizzazione.
In realtà andrebbe aperto anche il capitolo di coloro che hanno venduto ai paesi emergenti quella tecnologia, per realizzare ciò che oggi ha visto retrocedere la nostra industria. Il riferimento corre, ad esempio, al distretto del valvolame e rubinetteria a nord di Novara. Qui molti (troppi) imprenditori hanno ceduto tecnologia e soluzioni, tanto da portare a un impoverimento del territorio in numero di imprese e posti di lavoro.
Di chi è la colpa della crisi? Eccoli qui!
I nostri figli non hanno più lavoro perché è stata ceduta sia la tecnologia sia l’attività insita in queste funzioni industriali sicuramente marginali, ma che poi portano al collasso del mercato interno. E’ palese che comunque questi rami d’attività di base, sarebbero andati perdute nel corso del tempo, per cui difenderli è come una guerra contro il vento, ma addirittura farsi del male da soli è stato esagerato, anche perché svolto in assenza di una regolarizzazione interna. Abbiamo qui trovato la parola chiave sulla bocca di ogni studioso: l’esagerazione (il nocciolo della vicenda). E’ completamente sciocco affermare che “indietro non si torna” (anzi criminale) quando la strada percorsa risulta sbagliata o necessaria di ampie modifiche.
Dal 2000 a oggi, è stata perseguito un modello di sviluppo che si è rivelato sbagliato per cui si deve studiare “un ritorno” critico agli anni Ottanta-Novanta, per ripartire da quella base.
Sono stati buttati via vent’anni? È probabile.
La maturità risiede nel capire quando fare marcia indietro per evitare di distruggersi irrimediabilmente.
Una preoccupazione comune? Tra le molte cose, come in Turchia si parla di colpo di stato da parte delle autorità militari, la stessa dinamica è credibile nella Grecia di oggi. Ecco come emerge sempre meglio il nocciolo delle diverse vicende.
Rimbocchiamoci le maniche cercando il nocciolo.