A 100 giorni dal novembre presidenziale americano. Taccuino americano 4.
A 100 giorni all’elezione del nuovo presidente degli Stati Uniti d’America; sarà una conferma per l’attuale presidenza o nomina di un nuovo direttivo? E’ difficilissimo prevedere con un “decente” margine di sicurezza l’esito delle elezioni, perché da mesi i due candidati sono alla pari il che rappresenta, implicitamente, una sconfitta per l’amministrazione in carica.
L’attuale presidente non convince perché nella sua vita ha fatto solo il politico (già questo particolare insegna molto all’Italia) e tutte le cause della grande crisi del 2008 sono rimaste immutate nella loro potenzialità, oltre alla disoccupazione che colpisce 14 milioni di persone. Il progetto pilota dell’amministrazione Obama, ovvero la riforma sanitaria è in realtà un’altra tassa e gli americani lo stanno capendo solo adesso, traducendo in effetto boomerang quanto è stato strombazzato come un’avanzata della civiltà.
Dall’altra parte, nel campo repubblicano, c’è un candidato che non sfonda. Non riesce a fare presa sulla nazione, perché essendo un business man, è profondamente compromesso con tutti quei processi di globalizzazione e delocalizzazione che hanno impoverito l’America, trasferendo il manifatturiero all’estero.
Lo stesso Obama ha attaccato, su questo tema, con uno spot televisivo il candidato Romney, indicandolo come “il problema”. In effetti, in questo caso, ma solo questo, il presidente ha ragione.
Al di là della fotografia di sintesi così scattata a poco più di 3 mesi dall’elezione impressiona come:
– la globalizzazione e la delocalizzazione rappresentano dei demeriti agli occhi degli elettori (concetto ancora non acquisito nel nostro paese) esprimendo con ciò un cambiamento radicale rispetto agli ultimi 12 anni. Ci si era illusi che bastasse conservare la parte finanziaria, amministrativa e di progettazione di un’azienda per essere più ricchi, delegando la produzione ai paesi più poveri, mentre questo si è rivelato falso. SIDERWEB da anni si batte per una revisione del concetto di globalizzazione e delocalizzazione, ma solo adesso il tema irrompe nel dibattito pubblico e politico, chiedendo un cambio di orizzonti che permettano il ritorno del manifatturiero in patria. Purtroppo, nel confronto con “casa nostra”, va registrato ancora come i nostri politici non sappiano neppure di che stiamo parlando e questi temi sono ancora fuori dalle loro agende , benché prossime le elezioni in Italia;
– la Cina si conferma sempre di più come “il problema” dal quale gli Stati Uniti cercano di sganciarsi progressivamente; (è noto il ricatto economico cinese sul debito pubblico americano). Kissinger (segretario di stato nella presidenza Nixon, ovvero di colui che ha portato la Cina nell’area d’influenza americana dagli anni 1975 in poi) si esprime, in un suo ultimo libro appena pubblicato, nei termini di un prossimo scontro militare sino-statunitense;
– oggi 2 agosto, a 100 giorni, sulle pagine economiche di USA Today si parla apertamente di collasso economico per la Cina (concetto più volte ribadito nelle pagine di SIDERWEB e ora finalmente alla portata della stampa internazionale). Ricordo, tre mesi fa d’aver intervistato a Milano Ludovic Subran, chief economist della Euler Hermes, assicurazioni per le imprese in ambito internazionale, a cui chiesi se era conscio del rischio di collasso sociale in Cina. Subran, molto imbarazzato, mi rispose di si, ma che non era opportuno dirlo, per evitare che il rischio si alimentasse da solo. In poche parole tutti sanno tutto, ma nessuno si ripara, ponendo le basi per un altro crollo finanziario, in grado di distruggere grandi quantità di capitale occidentale incautamente “lanciato” in Cina.
– con una disoccupazione “alle stelle” negli Stati Uniti si è capito come la soluzione del problema alla crisi sia il lavoro, ovvero la quantità di posti di lavoro remunerati. In aprile è stato pubblicato l’ultimo libro di Paul Krugman (Fuori da questa crisi adesso!) dove, per risolvere la crisi, si chiedono massicci investimenti statali recuperando i criteri keynesiani. In realtà questa tesi è completamente sbagliata. Lo è nella misura in cui il manifatturiero è delocalizzato. Vuol dire che forti investimenti pubblici in aumento della spesa pubblica, nelle condizioni in cui versa l’economia americana, significano incrementare il lavoro cinese o brasiliano, indiano o giapponese ma non quello statunitense che dovrebbe essere il vero beneficiario. Ecco perché le tesi del premio Nobel all’economia Krugman sono errate.
In conclusione, a 100 giorni, la campagna elettorale del paese leader dell’Occidente ha saputo ancora una volta mettere a nudo tutte le contraddizioni della nostra cultura contemporanea, ponendole come quesiti sul tavolo del confronto. Chi saprà offrire risposte e come potrà trasformarle in progetti sarà il nuovo leader del mondo libero.