Come il rapporto di lavoro entra in crisi. Spesso al lavoro si sente questa frase: ti ho dato 30 anni della mia vita e ora?
Come il rapporto di lavoro entra in crisi? All’atto della chiusura o trasformazione come nuova apertura con diverso nome di un’impresa, sempre più frequentemente si assiste a dei drammi importanti, vissuti da uomini e donne che hanno offerto “la loro vita” all’azienda e ora ne subiscono, nella più intima sensibilità, un non riconoscimento.
Concettualmente il ragionamento è sintetizzabile come: …ti ho dato 30 anni della mia vita per ritrovarmi disoccupato.
Con un argomento di questo tipo, si vanno a toccare gli aspetti più intimi della personalità umana al pari della vita affettiva, della coppia, figli e salute; ne consegue che ci si trova in “un campo minato” dove l’amore diventa odio. Ecco come il rapporto lavorativo entra in crisi.
In un dramma di questo tipo, che si fa? Affermare che l’azienda si dovrebbe rivolgere a personale specialistico è sciocco, perché non lo fa nessuno e non ce ne sono neppure gli estremi. È come dire che per lasciare il partner si passa dallo psicologo. Potrebbe anche essere, ma non è questa la prassi.
Cercando d’indicare delle vie percorribili, in linea di massima sarebbe saggio che:
– il titolare dell’azienda e non suoi delegati, parlasse singolarmente a ogni dipendente in prima battuta e solo successivamente in forma collettiva;
– nel colloquio faccia a faccia, il capo dell’azienda è sano che spieghi cos’è accaduto e stabilisca una tempistica per la chiusura del rapporto di lavoro (su questo aspetto ci sono visioni molto diverse). Chi pensa sia corretto un preavviso che spesso si traduce in agonia e danno all’impresa e chi desidera una chiusura netta al termine del colloquio) È altresì parere condiviso che entrambe le impostazioni siano corrette, ma è buona cosa che vadano applicate a seconda della tipologia caratteriale del dipendente e qui solo il datore di lavoro può decidere con criterio;
– certamente se fosse possibile evitare di dire “che tutto va bene” e aprire qualche mese dopo lo “stato di crisi”, sarebbe più elegante;
– se si fosse sull’orlo della chiusura è giusto cercare di gestire la crisi ipotizzando il taglio volontario delle retribuzioni o altre ipotesi. Questa ricerca di una reazione avrebbe un grande valore relazionale;
– oltre il preannunciare la crisi, tagliare di netto il rapporto di lavoro o lasciare del breve tempo di orientarsi, una “buona azione” sarebbe contribuire alla spesa, presso una società di ricerca personale, affinché aiuti nella riqualificazione-ricollocazione del personale presso altre realtà lavorative in Italia come all’estero;
– sul discorso d’andarsi a cercare un lavoro all’estero ci si scontra con realtà di una complessità “indicibile” ma anche se nello scetticismo generale, si tratta di un’opzione da prendere in considerazione indipendentemente dalla conoscenza della lingua (è una questione di volontà);
– una buona idea (poco perseguita) sarebbe quella di spezzare un ramo d’azienda, costituendola a nuovo dove gli ex dipendenti che se la sentono, contribuendo con il loro tfr si guadagnerebbero un posto in una “loro” impresa organizzata in cooperativa. Nel settore della siderurgia il solo magazzino ha dei valori altissimi, che rendono una soluzione di questo tipo difficilmente praticabile, ma esistono anche realtà come l’ossitaglio e lavorazioni annesse, che potrebbero enucleare una realtà nuova.
Certamente il dolore che provoca la fine anticipata del posto di lavoro è paragonabile a quella di una separazione. Ci si sente umiliati e poco dopo con una grande rabbia in corpo che è pericolosa.
INTERVISTA A UNA PERSONA CHE HA PERSO IL LAVORO DOPO 30 ANNI
Grazie per averci concesso questa intervista Signora C.
La sua impresa sta morendo, dopo 30 anni di lavoro, sacrificio e soddisfazioni, spesi in un ambiente di lavoro abitato e considerato anch’esso “casa”.
Condivida con noi il dolore e ci spieghi come reagire.
Afferma la Signora C: sono umiliata, depressa, violentata, abbandonata. Solo chi è in questa condizione o l’ha vissuta può capire. Non sono più una ragazza dopo 30 anni di lavoro, ma non è l’età che mi scoraggia, bensì l’assenza di reazione che stupisce!
Mi spiego.
I tempi sono difficili per tutti, ma le soluzioni ci sono sempre state.
Chi si sveglia e scopre solo ora l’ovvio (che era stato già suggerito mille volte) procedendo a chiudere l’azienda, sembra che faccia un dispetto o un atto inconsulto.
Al contrario sarebbe dignitoso tagliare il personale e farlo lavorare per 3 (in quanto lavora già per 2). Tagliare sia gli stipendi che un certo numero di posti, ristrutturando l’azienda, grazie all’aiuto di un consulente diverso dal solito, capace di parlare alle maestranze e alla dirigenza, credo sia il minimo.
Ecco, sono scioccata dall’incapacità (volontà) di reagire alle difficoltà, come se queste non fossero mai esistite e alla prima ci si scioglie come neve al sole. Veramente così deboli sono i capi per cui ho lottato una vita?
Lei mi chiede come reagire a una Caporetto del genere? Passerò alla concorrenza o chiederò lavoro ai miei stessi clienti, oppure venderò hot dog sulla spiaggia.
Dio che spreco, 30 anni buttati al vento, credendo in una classe d’imprenditori che non merita.