Fidelizzazione come problema in particolare sui profili di basso impegno e spesa come ad esempio il settore alimentare rispetto a quello della moda.
Per fidelizzazione s’intende la ripetitività dell’atto d’acquisto da parte del cliente che si rivolge con costanza dallo stesso distributore, produttore o negozio che sia.
La fedeltà del consumatore è credibile e costante nel tempo quando il prodotto identifica una personalità di consumo. Vuol dire che il consumo di quell’oggetto non è affatto limitato al suo utilizzo ma ad altri aspetti che sono d’immagine, sociale e inclusione in un certo ristretto ambito. Quando ci si trova in un contesto patologicamente compromesso come quanto appena descritto (il caso eclatante è quello della moda afflitto da esibizionismo e ricerca maniacale del “nuovo” acriticamente accettato) la fidelizzazione esprime un fatto di moda.
Accantonando la patologia del consumo per rientrare in quello normale, ovvero connesso al reale utilizzo del prodotto, è il caso di un cavolfiore, pomodoro e bistecca, fissare la fedeltà del consumatore è atto arduo e complesso. Pretendere che il consumatore s’affezioni al marchio (vedi esempio seppur di successo di Esselunga – leader nel campo della GDO in Nord Italia) diventa alquanto difficile.
Il consumatore sulla bassa gamma dove il consumo è connesso all’uso fisico o comunque diretto del prodotto, solitamente s’affida alla “bussola del prezzo” recandosi a comprare dove costa meno.
Una politica di reazione a questa migrazione sul prezzo più conveniente, può essere posta in essere dal negozio laddove aprisse una politica di coinvolgimento del cliente su una massa notevole d’attività.
In realtà non è importante cosa faccia il cliente, sollecitato dal punto vendita, ma che faccia!
Giochi, lotteria, angoli specifici per i minori o gli anziani o di parcheggio degli animali domestici, non è importante. Fosse anche l’aperitivo omaggiato a tutti i partecipanti, non è determinante.